Com’è che un Paese produttore di petrolio è costretto a razionare la benzina
di Maurizio d’Orlando
Scelte politiche sbagliate e pretese economiche irrazionali verso chi potrebbe costruire le raffinerie hanno portato Teheran ad istituire le tessere elettroniche per limitare l’uso del carburante. La crisi sta provocando le maggiori proteste interne che Ahmadinejad abbia avuto da quando è stato eletto presidente.
 Milano (AsiaNews) - Il razionamento della benzina sta provocando in Iran le più grandi proteste interne contro il presidente Ahmadinejad dal 2005, da quando questi è al potere. Poter disporre di tre litri di benzina al giorno, nel quarto Paese esportatore di petrolio del mondo, oltre che rendere difficile la vita ai privati, impedisce a molti di guadagnare, visto, ad esempio, che forse la metà degli 11 milioni di abitanti di Teheran si spostano con i taxi collettivi, attività non ufficiale di decine di migliaia di persone. Impossibilitati a tirare avanti anche i proprietari ed i gestori di camioncini bar e di botteghe ambulanti.
 
Il razionamento ha così provocato nella maggioranza degli iraniani una irritazione, accresciuta dal fatto che proprio Ahmadinejad, in campagna elettorale, aveva promesso un miglioramento delle condizioni di vita proprio grazie al petrolio. La rabbia è sfociata in assalti alle pompe di benzina e scontri con la polizia, peraltro praticamente ignorati dalle controllatissima fonti di informazione, che hanno solo dato notizia del sostegno della Guida Suprema Ali Khamenei al piano di razionamento. Al controllo delle notizie la popolazione reagisce facendo circolare messaggi ironici come quello per cui “per ordine del Presidente coloro che non hanno benzina possono chiederla ai 17 milioni di somari che hanno votato per lui”.
 
A molti, non solo tra gli iraniani, può sembrare incredibile che un Paese esportatore di petrolio possa essere costretto a razionare la benzina, mediante una versione aggiornata ed elettronica delle tessere alimentari e per i generi di prima necessità in uso nei Paesi europei durante la seconda guerra mondiale. Negli ambienti petroliferi la situazione era però nota da molto tempo, anche perché non è altro che un capitolo di una situazione diffusa in tutto il mondo. Buona parte degli attuali alti prezzi del petrolio sono dovuti infatti ad una carenza di capacità di raffinazione del petrolio greggio. Le raffinerie, si dice, inquinano e perciò nessuno le vuole vicino al cortile di casa, né in Europa, né negli Stati Uniti, ma nemmeno nei Paesi in via di sviluppo.
 
A parte che ci sarebbe da chiedersi quale attività umana o anche animale non inquini, almeno in minima parte, ed a parte che le moderne raffinerie sono molto meno inquinanti di quelle di un tempo, il problema è che dappertutto nel mondo la gente aspira a spostarsi preferendo o essendo costretta ad utilizzare veicoli alimentati a benzina o a gasolio. È evidente che se da anni ormai le autorità politiche di quasi tutto il modo non consentono più la costruzione di nuove raffinerie ed impongono restrizioni tali all’attività di quelle esistenti da indurre le imprese a chiudere gli impianti, prima o poi il problema della inadeguata capacità di raffinazione sarebbe emerso: non si può mettere nei serbatoi dei veicoli il greggio così come estratto dai pozzi. Si aggiunga poi che la popolazione di molti Paesi esportatori di petrolio sono state indotte a credere che per loro il combustibile, chissà perché, dovrebbe essere gratuito: chi mai, a questo mondo, lavora sempre e del tutto gratis ? Costruire una raffineria costa non poco, da uno a tre, quattro miliardi di dollari. Eppure per l’Iran, che deve spendere oltre cinque miliardi di dollari l’anno per importare benzina, investire nella raffinazione sarebbe molto conveniente.
 
Se si considera che gli impianti di estrazione del petrolio sono già più che ammortizzati, in fondo per lo Stato iraniano il costo marginale della materia prima, il greggio, è quasi nullo. Perché dunque non è stato fatto, ci si potrebbe chiedere. Forse che in Iran non sanno far di conto? Forse che l’Iran con l’esplosione dei prezzi cui vende il greggio non dispone delle risorse finanziarie per investire nella raffinazione ? è evidente che non è questo il caso.
 
Già da molti anni il governo iraniano si era posto come priorità quella di adeguare la capacità di raffinazione ai consumi interni ed ha chiesto a vari fornitori internazionali di impiantistica di avanzare le proprie proposte. Con le relativamente poche opportunità di appalti per nuove raffinerie ci si sarebbe potuto attendere una lotta per aggiudicarsi i lavori. Eppure così non è stato, essenzialmente per due ordini di fattori.
 
In primo luogo gli iraniani pensano di sapere tutto del mondo del petrolio e della raffinazione. D’altro canto proprio in Iran, ad Abadan, fu costruita da parte della Anglo Persian Oil Company (divenuta poi BP) la prima grande raffineria al mondo destinata prevalentemente all’esportazione. Fu proprio la disponibilità di tale raffineria la ragione che, nel maggio 1914, poco prima del fatale attentato di Sarajevo in cui morì l’arciduca Ferdinando, indusse, con una preveggenza un po’ sospetta, l’allora ministro della Marina militare britannica Winston Churchill a far approvare dal parlamento britannico l’acquisto del 54 % della suddetta Anglo Persian. In ballo c’era un cospicuo contratto per la fornitura di combustibile alla flotta britannica siglato peraltro in quella stessa data.
 
Gli ingegneri iraniani hanno mantenuto una buona conoscenza tecnica e sanno dunque bene quanto costa dettagliatamente la componentistica di una raffineria. Per tale ragione, addizionando i costi delle singole componenti, hanno proposto alle possibili controparti internazionali delle condizioni, che però nessuna di queste si è sognata di accettare. Il punto è che costruire una raffineria moderna, per certi versi, può essere tecnologicamente più complesso che costruire una bomba atomica. Non basta mettere, infatti, insieme le singole componenti, ma richiede un coordinamento complesso e quindi costoso. Con un paragone forse un po’ forte, una persona non è l’insieme di braccia, gambe testa ed altri organi, ma molto, molto di più. La differenza tra quanto calcolato come costo e quanto richiesto dalle compagnie occidentali che possono vantare un’adeguata esperienza ha indotto qualcuno in Iran a sospettare o dell’avidità dei capitalisti occidentali o che qualche persona ad alto livello nel Paese, in combutta con le società straniere, stesse facendo i propri interessi personali, con la scusa di costruire una raffineria. Nel mondo dei grandi appalti internazionali la corruzione esiste, anche se è differente da Paese a Paese, ed è senz’altro un male. È giusto quindi cercare, quanto meno di contenerla entro limiti minimi e tollerabili, visto che è irrealistico pensare di sradicarla del tutto.
 
Uno scandalo ancor maggiore della stessa corruzione, laddove questa non travalichi i ristretti limiti del tollerabile, è però l’inedia, il non fare niente. Questo è il caso delle nazioni dove la sfiducia reciproca è generalizzata, i contrasti di potere sono forti e tutti sono pronti ad erigersi a giudici per accusare gli altri. Questo, se ne deve quindi supporre, è il caso dell’Iran. In un Paese che nasce da una rivoluzione – quella islamica di Khomeini – le inevitabili differenze di vedute tra le persone non possono emergere come diversi orientamenti di pensiero per non contraddire l’ideologia ufficiale che tutti sono tenuti ad onorare. I contrasti di potere diventano quindi ancor più forti ed una mera discrepanza di valutazioni economiche dà subito adito a sospetti che la sfiducia reciproca fa diventare delle false certezze. Questo dunque preclude la strada degli appalti internazionali.
 
Il secondo ordine dei fattori che ha bloccato e blocca l’adeguamento della capacità di raffinazione è il modello economico che si è data la Repubblica islamica iraniana. L’attività privata è infatti ristretta alle piccole ed in certi casi medie imprese. La grande impresa ed in particolare il settore petrolifero sono competenza dello Stato. Anche in questo caso quindi l’immobilismo ha una sua precisa spiegazione. È noto infatti che lo statalismo autarchico non solo è storicamente fallito alle diverse latitudini e longitudini del mondo, ma che per sua stessa natura è raramente in grado di portare a termine in breve tempo e tempestivamente progetti complessi a costi contenuti.
 
Un’ultima considerazione. Nel settore del petrolio i tempi sono lunghi. Oggi si scontano gli errori di ieri. Per erigere una raffineria, così come per scavare dei pozzi e mettere in produzione dei giacimenti o stendere un oleodotto o costruire i terminali d’imbarco occorrono molti anni. Per tale ragione se non si affronta da subito con decisione il problema dell’ampliamento delle strutture nel settore del petrolio ed in generale dell’energia tra non molto la crisi da acuta diverrà ingestibile. A quel punto l’umanità non potrà che incolpare se stessa per l’insipienza di oggi.