09/12/2008, 00.00
ASIA
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Crisi economica: Stati Uniti e Cina, tempesta valutaria all’orizzonte

di Maurizio d'Orlando
L’abissale livello del debito estero degli Usa e la svalutazione eccessiva e ingiustificata dello yuan cinese sono due elementi di forte rischio per l’economia e la stabilità mondiali. Le soluzioni trovate finora vanno bene agli organismi finanziari, ma non alle popolazioni. La nascita di una oligarchia “trasversale”, che unisce banche centrali, Partito comunista cinese, oligarchie russe, sceicchi del petrolio.

Milano (AsiaNews) - Dopo la crisi dei “sub-prime”, delle banche, delle borse, è in arrivo una nuova ondata dello stesso maremoto: forse prenderà le forme di una tempesta valutaria che toccherà non solo il dollaro e l’euro, ma anche la Cina e l’Asia, l’Est Europa ed i Paesi emergenti.

Questa ipotesi contrasta con l’accordo raggiunto al G-20 di Washington tra i capi di Stato e di governo dei Paesi che rappresentano quasi il 90 % del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale[1]. Tali Paesi si sono impegnati a non erigere nuove barriere tariffarie: la globalizzazione – essi dicono - non deve arrestarsi, non si deve ricadere nel protezionismo, commettendo lo stesso errore in cui si è caduti dopo la crisi del ’29. Questo consenso unanime sembra però solo un accordo di facciata. In realtà la globalizzazione si è sviluppata su un modello economico squilibrato. Finora essa ha potuto reggersi proprio sul controllo dell’emissione monetaria  e su un protezionismo fatto di barriere doganali non tariffarie. La tempesta valutaria che è in arrivo non è che un violento e pericoloso riequilibrio del sistema degli scambi internazionali.

Per affrontare la crisi, molti Paesi – e soprattutto gli Usa – hanno invaso il mercato con nuove immissioni di moneta. Alla radice degli attuali sconvolgimenti economici non c’è però una crisi di liquidità, ma di solvibilità. Inondare il sistema di liquidità a debito non risolve il problema, ma lo aggrava. Per salvare il sistema bancario e finanziario la Fed ed il Ministero del Tesoro americano in poco tempo e per considerevoli importi – secondo Bloomberg, per 7'740 miliardi di dollari, circa 11 volte il valore originale del piano Paulson; il 56,19% del Pil Usa del 2007[2] – stanno indebitando il contribuente americano. Non sappiamo se questo è legale, ma ci chiediamo se sia legittimo non solo verso i cittadini americani, ma anche nei confronti del resto del mondo ed in particolare dei paesi asiatici, che sono tra i maggiori detentori di ricchezza monetaria denominata in dollari.

Un modello economico squilibrato

La globalizzazione si regge su di un modello economico squilibrato. Finora la locomotiva della domanda mondiale è stata fornita dai consumi privati e pubblici degli Stati Uniti. I consumi americani, cioè, hanno permesso la crescita economica di altri paesi, trainata dalle esportazioni. In questo schema, l’assurdo è che chi produce è sottopagato e deve risparmiare per fare credito a chi non produce e difficilmente potrà pagare. Il lavoratore in Cina, Brasile, India viene remunerato con uno stipendio da fame, per produrre beni calibrati su gusto ed esigenze del mercato statunitense (ed occidentale)[3]. Per pagarli, il consumatore americano non è in grado di produrre risorse e valore corrispondenti. Di fatti, l’andamento del Pil Usa è negativo dal terzo trimestre del 2000, se calcolato sulla base dei criteri di valutazione dell’inflazione precedenti all’epoca Clinton[4]. Nonostante ciò, il consumatore americano è stato spinto, lusingato, finanziato oltre i propri limiti, quasi costretto a comperare ogni genere di prodotto. Da qui la crisi di solvibilità.

I fattori che concorrono a questo assurdo sono due: la liquidità finanziaria emessa e l’accumulo di riserve valutarie. Da un lato le autorità monetarie statunitensi hanno consentito l’abnorme emissione di moneta finanziaria, la cosiddetta M3. L’emissione eccessiva di una moneta, anche sotto forma di titoli finanziari a medio lungo termine, ne diluisce il valore reale. Questo avrebbe dovuto produrre una svalutazione del dollaro. E invece, la massa monetaria in dollari ha mantenuto un’accettazione inalterata come strumento di pagamento soprattutto in Asia e nei Paesi emergenti. Questo è stato possibile sia per il ruolo del dollaro – consolidato dal crollo dell’Urss –  quale valuta di riserva mondiale, sia per una deliberata politica della Fed e del Tesoro americano. Grazie ad una serie di strumenti di ingegneria finanziaria, resi possibili dall’abolizione della legge Glass-Steagall decisa nel 1999 – ABS, CDS, contratti a termine sui tassi d’interesse ecc. – i titoli finanziari emessi in dollari sono stati dichiarati “sicuri”. Le agenzie di valutazione del credito classificavano questi valori mobiliari come privi di rischio, la famosa “tripla A” o a basso rischio (le obbligazioni Lehman, ad esempio). In tal modo il debito di istituzioni private diventava quasi moneta a pieno valore faciale e come tale veniva iscritta all’attivo di bilancio senza accantonamento di riserve per il rischio.

Dall’altro lato, si deve registrare la fortissima sottostima, in termini di parità di potere d’acquisto, del tasso di cambio della valuta di alcuni paesi emergenti, in particolare della Cina. Essa è di fatto un sussidio molto potente alle esportazioni da tali paesi, che in effetti sono decollate oltre ogni misura e considerazione – qualità, tempi di consegna, assistenza, rete di vendita ecc. Si genera perciò un rapido incremento di riserve monetarie in Cina, Brasile, India e Russia, oltre che nei paesi esportatori di petrolio, e questo va a beneficio di ristrette oligarchie locali. Proprio in questo snodo, dall’assurdo scaturisce il tragico: l’incremento dell’instabilità politica internazionale. Infatti, la gran parte della popolazione dei Paesi emergenti viene pagata in moneta locale e non ha di fatto accesso ai benefici dell’incremento di riserve valutarie. Solo in Cina questo è il caso di circa 900 milioni di persone. Le oligarchie locali hanno priorità di consumo molto diverse dal resto della popolazione: espansione dell’area d’influenza ideologica o religiosa; armamenti convenzionali e nucleari; prestigio nazionale (v. le imprese spaziali); articoli di gran lusso, e così via. Viceversa, le popolazioni dei Paesi emergenti avrebbero una maggiore propensione al consumo di prodotti alimentari che potrebbero essere forniti dalle eccedenze strutturali di produzione delle derrate di paesi irrigui e con grandi estensioni adatte a coltivazioni agricole, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la stessa Unione Europea. Un incremento dei consumi alimentari dei paesi emergenti potrebbe perciò riequilibrare i flussi valutari. Invece, proprio il mantenimento di tassi di cambio sottovalutati produce nei paesi emergenti ed in particolare in Cina, una forte inflazione dei beni di consumo alimentare[5]. Il malessere interno produce tensioni che le oligarchie cercano ovviamente d’incanalare all’esterno.

In alcuni Paesi ed in alcune circostanze storiche l’espansione trainata dalle esportazioni può, a certe condizioni, convivere con un equilibrio di sistema se la circolazione monetaria non viene distorta, ma soprattutto se non è pregiudicata la solvibilità del sistema stesso[6]. Nelle circostanze attuali quest’ultimo rischio non è affatto basso perché sono state sfondate alcune soglie di guardia.

Il debito americano

Un primo parametro di instabilità è dato dal debito esterno lordo americano: è passato da 6.946  miliardi di dollari – al 31/12/2003 – a 13.427 miliardi di dollari – al 31/12/2007[7]. È il circolante monetario internazionale ed alla fine dello scorso anno era pari a circa il 100 % [8]del PIL Usa. Nonostante il raddoppio in pochi anni, l’economia Usa non ha dimensioni sufficienti per continuare a fornire debito sovrano – che valga come moneta di riserva valutaria – in misura adeguata per la crescita dell’economia mondiale.

Un secondo parametro è il dato sulla velocità di crescita del totale del debito pubblico americano ed anche questo è impressionante. Fino al 31/12/2007 il debito pubblico americano era di 10.600 miliardi di dollari ed il rapporto tra debito pubblico e Pil era del 76,75%. Con il piano Paulson e dopo il salvataggio di Fannie Mae e di Freddie Mac (ma senza AIG) è del 118,02%[9]. Se sono reali i dati Bloomberg di cui sopra – 7.740 miliardi di dollari di salvataggi – arriviamo ad un totale di circa 23.300 miliardi di dollari di debito pubblico e ad un rapporto pari al 169 % circa del Pil. In poco tempo il debito pubblico Usa è quasi raddoppiato o quasi triplicato. In ogni caso è diventato eccessivo.

Seppure importanti, i parametri di cui sopra non sono decisivi. Uno studio del Fondo monetario internazionale (Imf)[10] ha identificato una soglia di altissimo rischio di crisi valutaria quando il livello di debito pubblico esterno detenuto da stranieri tocca il 60% del Pil.

Ben inteso, anche altre condizioni concorrono a tale rischio – e si verificano anch’esse nel caso attuale degli Stati Uniti: un forte deficit corrente del bilancio statale[11] e della bilancia commerciale.

Il punto cruciale è però proprio un’elevata percentuale di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Per molti anni, infatti, a partire dalla 2a Guerra mondiale e fino circa al 1987 gli Stati Uniti sono stati creditori netti verso il resto del mondo. Non sappiamo ancora quale sia la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da stranieri non residenti dopo i salvataggi di questo autunno. A fine 2007, gli ultimi dati ufficiali disponibili, il rapporto tra debito esterno lordo ed attività estere nette (Net Claims of Foreigners on U.S., tabella 13-5 del preventivo contabile 2009, “2009 Fiscal Year Budget”, governo degli Stati Uniti) era del 61,82 %[12], in crescita rispetto all’anno precedente – il 54,42 %. È probabile che nel 2008 sia ulteriormente aumentata, ma supponiamo che la percentuale sia rimasta simile a quella del 2007. Anche solo sulla base del primo dato (118,02% di debito pubblico rispetto al Pil) la soglia indicata nello studio dell’Imf sopra citato è stata superata (il rapporto è il 73 % circa del Pil Usa).

Occorre però una precisazione. Lo studio del Fmi fa riferimento, come è ovvio, a paesi emergenti, la cui moneta non è, cioè, come il dollaro, valuta di riserva[13]. Non è perciò possibile stabilire con certezza quale sia il livello nel caso attuale degli Stati Uniti. Possiamo però supporre con ragionevole approssimazione che ci stiamo avvicinando in fretta ad un punto di rottura, anche perché sommando il debito pubblico americano agli impegni di spesa per sanità (Medicaid e Medicare) e pensioni (Social Security)  si arriva ad un totale pari al 429,37 % del Pil[14].

Da ultimo ricordiamo che nel 2007 gli investitori esteri in attività finanziarie Usa erano soprattutto asiatici, Giappone e Cina in testa. 

La Cina e la svalutazione dello yuan

L’altra soglia di guardia è data da quanto da anni ad AsiaNews andiamo sostenendo: la smisurata, arbitraria sottovalutazione del tasso di cambio di molti Paesi emergenti. Nel caso della Cina essa è del 55,54%. In pratica Pechino ha mantenuto costante la svalutazione stabilita dalle autorità monetarie cinesi il 1° gennaio 1994 (1dollaro Usa = 8,62 Yuan Renminbi, Rmb) con l’unificazione dei due diversi tassi di cambio allora esistenti. Mediante tale svalutazione la Cina mirava ad assicurarsi condizioni favorevoli prima di dover abbattere i propri dazi doganali per entrare nel Wto (l’Organizzazione per il Commercio Internazionale). Attualmente, grazie al cambio tuttora controllato dalla Banca centrale cinese, 1 dollaro Usa equivale a circa 6,8798 Rmb. Un semplice calcolo, sulla base dei dati 2007 della Banca Mondiale (Bm), ci può chiarire la sottovalutazione del cambio. Il Pil cinese a tassi di cambio correnti è di 3.280  miliardi di dollari. Quello espresso in termini di Parità di Potere d’Acquisto (PPP, secondo l’acronimo inglese) è di 7.055  miliardi di dollari. Ne deduciamo perciò che il tasso di cambio reale dovrebbe essere ben diverso per esprimere il medesimo potere d’acquisto Se, infatti, applichiamo lo stesso rapporto tra Pil cinese in dollari correnti (il 6,04 % del Pil mondiale) e Pil cinese a PPP (il 10,78 % del Pil a PPP mondiale) dovremmo avere un rapporto di 1 dollaro Usa per 3,821 Rmb (la sottovalutazione di cui sopra – 55,54% – è calcolata su tale rapporto). A tale livello di cambio, però, non solo le esportazioni cinesi crollerebbero, ma la gran parte delle industrie cinesi dovrebbero chiudere e licenziare con pericoli per la classe dirigente e grossi sconvolgimenti sociali. La Cina – la fabbrica del mondo, finora considerata un modello di grande successo – ha, infatti, un sistema produttivo molto inefficiente se si compara risorse umane, capitali e materie prime impiegate con l’incremento unitario del Pil. La svalutazione cinese del 1994 fu considerata una delle cause della crisi asiatica del 1998. Di essa si disse anche che fu il prezzo pagato per l’equivalente asiatico del “crollo del muro di Berlino del 1989”, cioè della transizione dal comunismo all’economia di mercato. A distanza di dieci anni la storia economica sembra ripetersi, amplificata.

Oligarchie trasversali

Per la transizione dal comunismo la Cina ha adottato l’aggressivo modello di sviluppo trainato dalle esportazioni. Come è già stato osservato anche in altre epoche della storia economica, anche ora constatiamo che tale modello è privo di equilibrio intrinseco: ai nostri giorni esso produce una delocalizzazione industriale scriteriata ed è concausa di una crisi finanziaria mondiale. Ulteriormente protratto, oltre una certa soglia, rischia di causare una crisi valutaria senza precedenti come raggiustamento brutale del sistema. Finora il modello ha retto perché conveniente per chi detiene il potere: sulla moneta (la Fed ed in misura minore la BCE); sulla manodopera (il Partito Comunista Cinese ad esempio); sulle materie prime (gli sceicchi del Golfo, il complesso oligarchico russo ecc).

Anche le conclusioni del G-20 di Washington - porre le fondamenta di un sistema monetario mondiale pur di salvare la globalizzazione - possono essere utili ad un’oligarchia trasversale a tutti i Paesi. Il controllo degli strumenti di pagamento è la base del potere.

Oggi si vuole di fatto creare, dalle ceneri del dollaro, una nuova banca centrale mondiale – e, forse una nuova moneta euro-americana, o magari solo nordamericana, l’amero, non sappiamo. Questo è forse un bene per Bm, Wto, Fmi, Fsf (Financial Stability Forum), per le varie agenzie Onu, per chi controlla la Fed, la BCE, la Banca centrale cinese e le altre banche centrali. Non è detto che ciò sia un bene anche per il resto del mondo.

 

[1] Bloomberg, News, November 16, 2008 – G-20 Calls for Action on Growth, Overhaul of Financial Rules – By Michael McKee and Simon Kennedy Bloomberg.com: Worldwide

[2] Nostra elaborazione, su dati della Banca Mondiale (Bm) per il Prodotto interno lordo (Pil) e per il debito – 8'500 miliardi di dollari secondo altre fonti – su dati riportati in Bloomberg, News, November 24, 2008;  U.S. Pledges Top .7 Trillion to Ease Frozen Credit By Mark Pittman and Bob Ivry,  Bloomberg.com: News.

[3] Oltre tutto il lavoratore cinese deve mantenere un elevato livello di risparmio privato data l’assenza, in pratica, di un’adeguata struttura di previdenza sociale (sistema pensionistico, indennità di disoccupazione, cassa mutua sanitaria ecc.). In un contesto in cui i bilanci delle imprese, diciamo così, non sono sempre molto veritieri il piccolo risparmiatore cinese, che ha provato la strada dell’investimento azionario, ha visto i suoi risparmi falcidiati. Prima c’è stata un’ascesa che ha beneficiato solo i “bene informati” e poi il crollo dei listini di borsa, maggiore di quello di altre piazze finanziarie (AsiaNews,  22/05/2007 , CINA La Borsa cinese e il rischio della crisi economica - Asia News). Perciò il risparmio forzoso, che per altro deprime i consumi interni cinesi, non ha trovato e non trova altro reale sbocco se non il deposito in banche statali in perenne semi bancarotta. Da queste viene o canalizzato alle imprese seguendo criteri politici o trasferito alla Banca Centrale ed investito in buoni del Tesoro ed altre attività finanziarie in dollari.

[6] Il precedente della Germania guglielmina non depone però a favore perché proprio il fabbisogno di materie prime conseguente al dilagare del “Made in Germany” fu una delle cause nel 1914 del conflitto mondiale.

[7] Dati del tesoro americano – al 31/12/2005 l’importo era di 9'476 miliardi di dollari.

Vedi http://www.treasury.gov/tic/debtad03.html  http://www.treasury.gov/tic/deb2ad07.html ; http://www.treasury.gov/tic/deb2ad05.html

[8] Nostra elaborazione, su dati della Banca Mondiale (Bm) e dati del tesoro americano

[9] Si tratta di una stima, vedi AsiaNews.it, 30/09/2008, Quanto è profondo l’abisso del caos economico, sociale e politico .

[10] Vedi IMF, World Economic Outlook, Public Debt in Emerging Markets, September 2003

 IMF World Economic Outlook (WEO)-- September 2003

[11] Si verifica sia nel caso di insufficiente raccolta fiscale (Argentina, India, ecc.) che di livelli eccessivi di spesa pubblica rispetto al Pil.  Quest’ultimo è il caso degli Stati Uniti dopo i salvataggi finanziari.

[12] 8.300 miliardi di dollari rispetto al debito esterno lordo di cui sopra, 13.427 miliardi di dollari. Vedi http://www.whitehouse.gov/omb/budget/fy2009/pdf/spec.pdf

[13] A tutt’oggi non esiste un comparabile precedente di insolvenza o moratoria sul debito pubblico, esclusi i periodi bellici, di un Paese la cui moneta sia valuta di riserva.

[14] Vedi la precedente nota 9.

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