10/05/2018, 15.15
CINA
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L’occidente preoccupato per le tattiche aggressive di Xi Jinping

di Willy Wo-Lap Lam

I progetti del “sogno cinese” vedono la Cina come l’unica superpotenza nel 2040. Ma l’esibizionismo sfrontato dei progressi ottenuti da Pechino in ambito tecnologico, economico e militare spaventa le democrazie mondiali. Usa ed Europa rispondono col blocco del trasferimento di microchip e con divieti verso compagnie cinesi in nome della sicurezza.  Per alcuni studiosi cinesi occorre tornare al “basso profilo” consigliato da Deng Xiaoping. Per gentile concessione della Jamestown Foundation.

Hong Kong (AsiaNews) – Di recente abbiamo assistito ad un’esplosione di visioni relativamente moderate da parte dei responsabili dell’opinione pubblica in Cina. La scorsa settimana Hu Xijin, direttore del Global Times, ha scritto sul suo blog Weibo che “in effetti il nostro Paese in un recente passato ha adottato una certa retorica altisonante”. Il capo del portavoce del Partito comunista cinese (Pcc), conosciuto per le sue visioni aggressive, ha detto: “Questo ha stimolato la preoccupazione di Usa e occidente sulla crescita della Cina”. “È essenziale fare qualche aggiustamento”. Poi ha aggiunto: “Il pubblico capirà i necessari compromessi [con l’occidente]” (Weibo.com, 20 aprile). Più o meno nello stesso tempo, il Dipartimento per la propaganda del Pcc ha ordinato di accantonare il gigantesco documentario Amazing China (lihaile, wo de guo). L’opera glorifica gli straordinari progressi della Cina in settori come la scienza, la tecnologia e l’esercito (Radio France Internationale, 20 aprile; Liberty Times [Taipei], 20 aprile). L’apparente svolta di Pechino verso la moderazione potrebbe anche essere il fattore alla base della decisione dell’Esercito di liberazione del popolo (PLA) di ridurre ad un solo giorno le esercitazioni navali su larga scala a largo dell’isola di Hainan, in programma subito dopo la Conferenza internazionale di Bo’ao (Global Times, 13 aprile; Tiexue.net [Beijing], 13 aprile). Il calcio d’inizio dell’esercitazione è stato dato da Xi Jinping, segretario generale del Pcc e presidente della Commissione militare centrale, che ha approfittato dell’occasione per orchestrare la più grande rassegna di truppe navali da parte di un leader nella storia recente.

Questi insoliti sviluppi hanno rispecchiato le preoccupazioni di lunga data degli studiosi liberali che, a causa della sua spinta a realizzare il “sogno cinese” nel diventare una superpotenza entro il 2049 o anche prima, la proiezione di Pechino verso il potere duro e morbido (hard and soft) potrebbe patire quello che Shi Yinhong, esperto della Renmin University America, ha descritto come “ deficit strategico” (China Brief, 11 maggio 2017). Focalizzandosi sull’agenda super ambiziosa della Cina in campo economico, diplomatico e militare, Shi ha indicato che la leadership del Pcc deve “prevenire l’eccessivo espansionismo, che potrebbe portare al ‘deficit strategico’” (战略透支) (Phoenix TV, 4 ottobre 2016; Lianhe Zaobao [Singapore], 21 settembre 2016). Sullo stesso filone, Liu Feng, ricercatore in relazioni internazionali della Nankai University, ha introdotto il termine “avventurismo strategico” (zhanlue maojin) per descrivere le manovre globali di Pechino. “Un Paese in crescita dovrebbe evitare il problema dell’‘avventurismo strategico’, cioè mettere in scena in diverse aree sfide troppo frenetiche e agitate per un grande Paese in controllo” (Theoretical Research [Beijing], 16 giugno 2017).

I dubbi sollevati per primi da persone come il prof. Shi sulle strategie cinesi verso gli Stati Uniti – e in generale sull’espansionismo globale del Paese – sono rafforzate dall’annuncio del 16 aprile del presidente Donald Trump che alla ZTE, gigante cinese dell’informatica, sarà proibito per sette anni di procurarsi componenti americani come chip per i computer e sistemi di software. Molto più degli altri aspetti della guerra commerciale in corso tra i due Paesi, sembra che Trump voglia prendere di mira l’intero settore high-tech cinese, impegnato nel tanto decantato obiettivo di Pechino del “Made in China 2025” (BBC Chinese, 24 aprile; Radio French International Chinese Service, 19 aprile). Il piano molto ambizioso prevede che la tecnologia cinese in settori come tecnologia per informazione e comunicazione (ICT), intelligenza artificiale (AI), robotica, big data e ingegneria del DNA superi nei prossimi sette anni quelle di Paesi sviluppati come Germania, Giappone e Stati Uniti. Un’intensa campagna di scoperte tecnologiche è la chiave per ristrutturare e aggiornare l’economia cinese – e l’amministrazione Trump sembra determinata a contrastare tutto questo con una serie di pugni diretti contro i giganti tecnologici della Cina. Il giorno successivo l’annuncio sulla ZTE, la Commissione federale per le comunicazioni ha vietato l’utilizzo di fondi federali per l’acquisto di prodotti di compagnie cinesi, come Huawei e ZTE, che potrebbero rappresentare “un rischio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. La scorsa settimana l’influente senatore Usa Marco Rubio ha accusato le aziende tecnologiche cinesi di “sottrarre tecnologia Usa…per preparare ‘battaglie informatiche in futuro’”. Inoltre ad alcuni giganti di prim’ordine dell’ICT e e-commerce, come Alibaba, è stato proibito di assorbire compagnie tecnologiche americane (Washington Examiner, 13 aprile; Bloomberg, 17 aprile, Lianhe Zaobao [Singapore], 8 febbraio).

L’Unione europea sembra allearsi con gli Stati Uniti nel frenare il Made in China 2025 e altri sforzi cinesi di superare la tecnologia occidentale. Il giorno dopo l’annuncio di Trump sulla ZTE, il Centro nazionale inglese per la sicurezza informatica ha diramato un’allerta alle aziende di telecomunicazioni a non fare affari con la ZTE, citando “potenziali rischi” alla sicurezza nazionale (The Guardian, 17 aprile). Negli ultimi due anni i governo di Francia e Germania hanno fatto pressione nelle sedi dell’Unione europea affinché venisse presa in considerazione l’ipotesi di vietare per legge ai colossi cinesi l’acquisto di compagnie tecnologiche in tutta l’Europa. Parigi e Berlino hanno anche adottato misure per limitare alle aziende della Cina l’acquisto di aziende tecnologiche in Francia e Germania (Apple Daily [Hong Kong], 23 aprile; Deutche Welle, 5 febbraio; South China Morning Post, 23 luglio 2017). Altri Paesi che sembrano intenzionati a frustrare il guizzo tecnologico del presidente Xi sono l’Australia e l’India.

La dipendenza asimmetrica del settore tecnologico cinese dalle importazioni di componenti principali è evidenziata da un rapporto ufficiale dal titolo “Analisi dello stato attuale dell’industria cinese dei circuiti integrati nel 2017”. Secondo il documento, circa il 100% dei microchip necessari all’industria informatica e al settore generale dei sistemi elettrici (通用电子系统) dipende dalle importazioni da Intel, Qualcomm e altre aziende americane (China Industries News, 10 agosto 2017). Da sole, le stime sul valore delle importazioni annuali di microchip si aggirano intorno ai 200-220 miliardi di dollari (Sohu.com, 3 dicembre 2017; CCTV Finance, 4 settembre 2017). Due anni fa il presidente Xi, che guida la Commissione centrale per gli affari del cyberspazio, ha ammesso che “a prescindere dalle dimensioni e dalla valutazione di mercato di una società informatica, se vi è una seria dipendenza da Paesi stranieri per i componenti essenziali, ciò equivale a costruire una casa sulle fondamenta di qualcun altro” (Xinhua, 19 aprile).

Dopo la bomba della ZTE, vari giganti della tecnologia cinese tra cui Alibaba hanno incrementato gli investimenti nei produttori di chip nazionali – e promesso di ridurre il tempo necessario per la piena autosufficienza. Tuttavia è noto che non esiste una soluzione rapida per trovare alternative alle importazioni di componenti high-tech americane, compresi non solo i chip, ma anche i modem, i sistemi operativi di software e gli strumenti ottici. Le autorità cinesi hanno posto un obiettivo coraggioso. La scorsa settimana Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, ha denunciato il governo degli Stati Uniti di “andare contro il flusso” della globalizzazione. La signora ha detto: “Se la politica degli Stati Uniti si basa su tutti i tipi di assurdità possibili, essa è estremamente irresponsabile ed estremamente pericolosa”. Con riferimento all’incidente della ZTE, Hua ha minacciato che la parte cinese è ben preparata a “impugnare la spada” (Voice of America, 17 aprile; Sohu.com, 17 aprile).

Tuttavia altri commentatori cinesi, e persino alcuni funzionari, hanno segnalato un diverso atteggiamento su come gestire la minaccia americana. Un documento politico pubblicato dall’Ufficio di ricerca della Commissione per la supervisione e l’amministrazione delle attività statali (Sasac) attribuisce la colpa della crisi ZTE al gigante dell’high-tech con sede a Shenzhen. Esso afferma che molte imprese “hanno pagato un prezzo vertiginoso per la miopia e la gestione disonesta della ZTE”. Il documento sostiene che “la posizione diplomatica della Cina e l’immagine dello Stato sono state inevitabilmente colpite” (Ming Pao [Hong Kong], 23 aprile; Thestandnews.com [Hong Kong], 23 aprile).

Altrettanto significativo, Deng Yuwen, analista politico di lunga data, ha sottolineato che dopo lo shock ZTE l’amministrazione del Pcc ha commesso i due errori di “mal interpretazione” delle intenzioni americane e di “eccessivo espansionismo” nell’area di proiezione della potenza globale. Deng fa notare che Pechino ha fallito nel percepire il cambiamento radicale della politica di Washington sulla Cina: il fatto che ora Trump e i suoi consiglieri percepiscano la Cina come la più grande minaccia al potere americano. Egli ha scritto: “[Pechino] ha messo in pratica una mentalità ‘conflittuale’ usando tattiche dure contro tattiche dure”. E l’aggressiva mossa geopolitica della Cina, compresa la creazione di una relazione di quasi-alleanza con la Russia contro gli Stati Uniti, potrebbe aver “esacerbato l’immagine negativa della Cina tra gli americani” (BBC Chinese Service, 23 aprile).

Retorica a parte, se la leadership del Pcc sta davvero ritoccando il suo stile commerciale pugilistico e la sua posizione di politica estera – e se i governi occidentali e le multinazionali si calmeranno – sarà misurabile da quanto Pechino sarà essere all’altezza degli obiettivi di “porta aperta” stabiliti da Xi alla conferenza internazionale di Bo’ao all’inizio di questo mese. Nel suo discorso programmatico, il leader supremo ha delineato quattro obiettivi principali: “ampliare in modo significativo l’accesso al mercato”; creare un “ambiente più attrattivo per gli investimenti”; “rafforzare la protezione dei diritti sulla proprietà intellettuale” ed accrescere le importazioni (China Daily, 10 aprile; Hong Kong Economic Times, 10 aprile). Allo stesso tempo Xi ha annunciato che l’isola di Hainan, diventata una provincia 30 anni fa, potrebbe divenire un esperimento di porto di libero scambio e, di fatto, la più grande zona di libero scambio del Paese (Ftz).

Dopo il suo discorso, ministri chiave come Yi Gang, nuovo governatore della Banca popolare cinese (Pbco), hanno elaborato le promesse di Xi a Bo’ao. Yi, che ha studiato negli Stati Uniti, fa notare che l’ingresso ai servizi finanziari multinazionali si apriranno di più, per esempio, eliminando il limite alla proprietà straniera per le banche. Accordi simili sono stati annunciati per le imprese automobilistiche multinazionali.

Tuttavia esistono ovvi limiti alla nuova politica di “porta aperta” della squadra di Xi. Prendiamo, per esempio, la definizione dell’isola di Hainan come la “più grande zona di libero scambio (Ftz) della Cina”. Nel 2013 il governo cinese ha promesso di aumentare il numero di Ftz, e da quel momento sono state create più di venti Ftz in città e province di tutto il Paese. D’altro canto le multinazionali non hanno sfruttato le nuove Ftz, dal momento che altre promesse non sono state mantenute, compresa la riduzione parziale dei controlli sui capitali. Nell’ultimo anno i leader regionali che gestiscono queste Ftz sono apparsi più interessati ad agganciare la loro stella alla Belt and Road Initiative (Silkroad.news.com, 3 aprile; South China Morning Post, 30 dicembre 2016). Per quanto riguarda l’apertura del settore finanziario, potrebbe essere troppo poco e troppo tardi. Gli ostacoli all’ingresso sul mercato hanno mantenuto la quota di mercato totale delle banche straniere in Cina al di sotto del 2%,  e questo 17 anni dopo l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Quindi sarebbe quasi impossibile per le istituzioni finanziarie multinazionali incidere sul predominio quasi totale delle quattro maggiori banche commerciali cinesi, che ora si collocano tra le dieci più grandi istituzioni finanziarie mondiali per attività (South China Morning Post, 11 aprile; K.sina.com.cn, 22 gennaio).

Secondo lo scienziato politico Wu Qiang, opinioni non ortodosse come quelle espresse nel documento Sasac riflettono l’ascesa di un nuovo modo di pensare non solo sul commercio e sulle relazioni sino-americane, ma anche sulle relazioni della Cina con l’ordine globale guidato dagli Stati Uniti. Wu, ex docente di politica alla Tsinghua University, afferma: “Un certo numero di tecnocrati e professionisti sono insoddisfatti perché preoccupazioni ideologiche come il nazionalismo hanno preso in ostaggio la politica economica ed estera della Cina”. Egli ha aggiunto che il recente scontro con gli Stati Uniti ha rafforzato la visione secondo cui la Cina dovrebbe tornare a “mantenere un basso profilo”, un mantra di politica estera stabilito da Deng Xiaoping – e che la Cina dovrebbe lavorare con le leggi globali e non aggirarle o sfidarle (Cable News Hong Kong, 23 aprile). Resta da vedere se il presidente Xi, che ha enfatizzato il “brandire la spada” in una vasta gamma di questioni economiche e geopolitiche, possa essere disponibile ad attenuare la politica globale di Pechino nel voler raggiungere lo status di superpotenza entro il 2040.

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