05/11/2021, 13.08
VATICANO
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Papa: se vogliamo amare davvero Dio dobbiamo amare l’uomo, specie quello che soffre

Francesco ha celebrato messa per il 60mo anno di inaugurazione del policlinico Gemelli di Roma, l’ospedale dove è stato ricoverato a luglio. “Ci fa bene, alla sera, passare in rassegna i volti che abbiamo incontrato, i sorrisi ricevuti, le parole buone. Sono ricordi di amore e aiutano la nostra memoria a ritrovare sé stessa: che la nostra memoria ritrovi sé stessa”.

Roma (AsiaNews) – “Vicinanza, compassione e tenerezza” è “lo stile di Dio”, quello dal quale viene il suggerimento che, “se vogliamo amare davvero Dio, dobbiamo appassionarci dell’uomo, di ogni uomo”, soprattutto di chi vive la condizione in cui il Cuore di Gesù si è manifestato, cioè il dolore, l’abbandono, lo scarto; soprattutto in questa cultura dello scarto che noi viviamo oggi”.

E’ una riflessione sul Cuore di Gesù il tema dell’omelia di papa Francesco nella messa celebrata oggi (nella foto) per il 60mo anno di inaugurazione del policlinico Gemelli di Roma, l’ospedale dove è stato ricoverato a luglio e dove, prima di lui, era stato curato Giovanni Paolo II, che lo nominò “Vaticano III”, (con Castel Gandolfo chiamato Vaticano II) alludendo alla durata delle sue permanenze. Ed è ricordando la sua permanenza che Francesco ha voluto “rinnovare oggi il mio ‘grazie’ per le cure e l’affetto che ho ricevuto qui”.

Il “Gemelli” è la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dal nome è partito Francesco per indicare in ricordo, passione e conforto le parole suggerite dalla contemplazione del Cuore di Gesù, che “ci mostra Gesù che si offre: è il compendio della sua misericordia”. “Guardandolo, viene naturale fare memoria della sua bontà, che è gratuita, non si compra né si vende, e incondizionata, non dipende dalle nostre opere, è sovrana. E commuove. Nella fretta di oggi, tra mille corse e continui affanni, stiamo perdendo la capacità di commuoverci e di provare compassione, perché stiamo smarrendo questo ritorno al cuore, cioè il ricordo, la memoria, il ritorno al cuore. Senza memoria si perdono le radici e senza radici non si cresce. Ci fa bene alimentare la memoria di chi ci ha amato, ci ha curato, risollevato”.

“Credo che in questo tempo di pandemia ci faccia bene fare memoria anche dei periodi più sofferti: non per intristirci, ma per non dimenticare, e per orientarci nelle scelte alla luce di un passato molto recente”. E’ bene ricordare, “facendo tesoro dei volti che incontriamo. Penso alle giornate faticose in ospedale, in università, al lavoro. Rischiamo che tutto passi senza lasciare traccia o che restino addosso solo tanta fatica e stanchezza. Ci fa bene, alla sera, passare in rassegna i volti che abbiamo incontrato, i sorrisi ricevuti, le parole buone. Sono ricordi di amore e aiutano la nostra memoria a ritrovare sé stessa: che la nostra memoria ritrovi sé stessa. Quanto sono importanti questi ricordi negli ospedali! Possono dare il senso alla giornata di un ammalato. Una parola fraterna, un sorriso, una carezza sul viso: sono ricordi che risanano dentro, fanno bene al cuore. Non dimentichiamo la terapia del ricordo: fa tanto bene!”.

“Passione è la seconda parola. Passione. La prima è la memoria, ricordare; la seconda è passione. Il Cuore di Cristo non è una pia devozione per sentire un po’ di calore dentro, non è un’immaginetta tenera che suscita affetto, no, non è questo. È un cuore appassionato – basta leggere il Vangelo –, un cuore ferito d’amore, squarciato per noi sulla croce”. “Nella tenerezza e nel dolore, quel Cuore svela insomma qual è la passione di Dio. Qual è? L’uomo, noi. E qual è lo stile di Dio? Vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Che cosa suggerisce questo? Che, se vogliamo amare davvero Dio, dobbiamo appassionarci dell’uomo, di ogni uomo, soprattutto di quello che vive la condizione in cui il Cuore di Gesù si è manifestato, cioè il dolore, l’abbandono, lo scarto; soprattutto in questa cultura dello scarto che noi viviamo oggi. Quando serviamo chi soffre consoliamo e rallegriamo il Cuore di Cristo”.

La terza parola è conforto. “Essa indica una forza che non viene da noi, ma da chi sta con noi: da lì viene la forza. Gesù, il Dio-con-noi, ci dà questa forza, il suo Cuore dà coraggio nelle avversità. Tante incertezze ci spaventano: in questo tempo di pandemia ci siamo scoperti più piccoli, più fragili. Nonostante tanti meravigliosi progressi, lo si vede anche in campo medico: quante malattie rare e ignote!”. “Il Cuore di Gesù batte per noi ritmando sempre quelle parole: ‘Coraggio, coraggio, non avere paura, io sono qui!’. Coraggio sorella, coraggio fratello, non abbatterti, il Signore tuo Dio è più grande dei tuoi mali, ti prende per mano e ti accarezza, ti è vicino, è compassionevole, è tenero. Egli è il tuo conforto”.

“Incoraggiamoci – ha concluso - con questa certezza, con il conforto di Dio. E chiediamo al Sacro Cuore la grazia di essere capaci a nostra volta di consolare. È una grazia che va chiesta, mentre ci impegniamo con coraggio ad aprirci, aiutarci, portare gli uni i pesi degli altri. Vale anche per il futuro della sanità, in particolare della sanità ‘cattolica’: condividere, sostenersi, andare avanti insieme. Gesù apra i cuori di chi si prende cura dei malati alla collaborazione e alla coesione. Al tuo Cuore, Signore, affidiamo la vocazione alla cura: facci sentire cara ogni persona che si avvicina a noi nel bisogno”.

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