23/09/2022, 09.11
IRAN
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Teheran, uccisione Mahsa Amini: la 'polizia della morale' strumento di repressione e morte

La morte della 22enne curda accende i riflettori sulla Gasht-e Ershad, che vigila sul rispetto delle norme legate all’islam. Dalla rivoluzione islamica del 1979 la stretta sui costumi è andata aumentando “passo dopo passo”. L’hijab  simbolo della protesta per libertà e diritti, soprattutto per le donne. Proseguono le manifestazioni, almeno 40 le città coinvolte. Oltre 30 vittime negli scontri. 

Teheran (AsiaNews) - La morte della 22enne Mahsa Amini ha (ri-)acceso i riflettori sulle famigerate squadre della "polizia della morale" iraniana che, dall’ascesa al potere del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, hanno inasprito i controlli sulla conformità a usi e costumi della tradizione musulmana. Soprattutto per le donne, partendo proprio dall’obbligo di indossare l’hijab, il velo islamico, che da tempo rappresenta per la parte più laica e riformista una battaglia di libertà e diritti. E che nel caso della giovane originaria del Kurdistan iraniano individuata mentre usciva dalla fermata di una metro a Teheran, dove si trovava per una breve vacanza, si è trasformata nella causa del fermo e delle violenze - negate dalla polizia - che hanno determinato il decesso.

La tragica vicenda ha innescato una ondata di proteste come da tempo non si registrava nella Repubblica islamica, con un elemento di sostanziale novità: la presenza delle donne in prima fila nella lotta per le libertà e i diritti, contro la quale le autorità civili e religiose hanno opposto il pugno di ferro con arresti, censura, interruzione delle comunicazioni e blocco della rete internet. Tutto ciò non ha impedito il propagarsi sui social di video e immagini delle manifestazioni in oltre 40 città, e dei relativi scontri, che hanno causato in pochi giorni la morte di almeno 31 persone.

Dimostrazioni che hanno toccato anche la vicina Turchia, dove a Istanbul un centinaio di persone si sono radunate presso il consolato iraniano per manifestare solidarietà e cordoglio alla vittima. Alcune donne presenti hanno anche compiuto gesti simbolo della protesta: taglio di capelli e rogo dell’hijab. Da New York giunge la notizia della cancellazione all’ultimo minuto dell’intervista al presidente Ebrahim Raisi da parte della nota giornalista Christiane Amanpour. Quest’ultima si sarebbe rifiutata di velare il capo, come imposto dalla delegazione iraniana. 

Il velo obbligatorio e la polizia della morale: i due nodi attorno ai quali si è sviluppata la vicenda di Mahsa. Le Gasht-e Ershad (questo il nome in farsi) sono una unità speciale con il compito di assicurare il rispetto delle tradizioni e dei costumi islamici, arrivando persino ad arrestare e frustare quanti non rispettano le norme o sono abbigliati in modo “improprio”. Tara Sepehri Far, esperta di Medio oriente e Nord Africa di Human Rights Watch (Hrw), conferma che “è difficile scovare una donna o una famiglia media iraniana che non ha mai avuto a che fare” con una pattuglia della morale, per “quanto sono presenti” per le strade di centri piccoli e grandi. 

Di solito una squadra è composta da sei persone, quattro uomini e due donne, e godono di ampia libertà nell’applicare la legge, arrestate e condurre nei centri di detenzione, o “rieducazione” aperti di recente. A loro spetta il compito di verificare l’applicazione della sharia, in particolare l’obbligo di coprire il capo per le donne, indossare abiti lunghi e dai colori poco appariscenti. Mahsa Amini sarebbe incappata nelle maglie di una pattuglia perché “una ciocca di capelli” usciva dall’hijab e questa è stata anche la firma della sua condanna a morte. 

In una rara intervista, e rigorosamente anonima, rilasciata alla Bbc un membro della polizia della morale afferma che il compito di queste squadre è di “proteggere le donne”, perché se non si vestono in modo consono “provocano gli uomini e rischiano conseguenze” anche gravi. In molte occasioni, spiega la fonte, sembra “di uscire per andare a caccia” e arrestare “quante più persone possibili”, una direttiva imposta dalle autorità e che, non di rado, è fonte di disagio. “[Agli arrestati] volevo dire - conclude - che non sono uno di loro. La maggior parte di noi è composta da semplici soldati, che svolgono la leva militare obbligatoria”. 

La lotta per l’imposizione del velo è iniziata all’indomani della rivoluzione islamica del 1979 ed è stata alimentata, non senza generare incomprensioni sulle modalità di applicazione, dalla stessa guida suprema Ruhollah Khomeini. Un processo che “non è successo all’improvviso in una notte” spiega la 78enne attivista Mehrangiz Kar, ma “che è andato aumentando passo dopo passo” dapprima con le donne che offrivano il velo per le strade poi, dal 1981, con le prime leggi che ne istituivano l’obbligo assieme a un abbigliamento in linea coi precetti islamici. Una legge parlamentare del 1983 ha sancito la fustigazione e, ancora più di recente, il carcere. 

L’istituzionalizzazione delle famigerate squadre della morale si deve infine all’ex presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, che dopo la vittoria elettorale del 2004 ha impresso una ulteriore stretta dando valore “formale” al corpo chiamato a vegliare sui costumi (e le donne). Con il tempo i suoi sgherri sono diventati sempre più oggetto del malcontento e simbolo di repressione, arrivando ad arrestare una donna perché aveva un rossetto sgargiante, un’altra per un paio di stivali appariscenti e giudicati “troppo erotici”. Il tutto condito da punizioni, anche crudeli.

Fino all’ascesa al potere dell’attuale presidente Raisi che, il 15 agosto dello scorso anno durante le prime settimane di mandato ha introdotto una nuova lista di restrizioni, come il sistema di video-sorveglianza in salsa cinese. E dato ampio mandato alle Gasht-e Ershad perché siano applicate le norme ispirate alla sharia, fino alle estreme conseguenze come insegna la tragica vicenda della giovane curda. Hadi Ghaemi, direttore del Center for Human Rights in Iran, ne è sicuro: “Questa volta i manifestanti - afferma - non chiedono solo giustizia per Mahsa Amini, ma rivendicano anche i diritti delle donne, civili e umani. Una vita senza una dittatura religiosa”. 

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