Gesuita indonesiano: Migranti sono gli schiavi moderni, aiutiamoli a ritrovare la dignità
di Mathias Hariyadi
P. Benedictus Hari Juliawan racconta il lavoro dei gesuiti che dal 2010 operano con i boat-people. I flussi migratori affliggono da tempo i Paesi del sud-est asiatico. Le isole dell’est Indonesia trasformate in campi lavoro forzato. “Circa 700mila persone all’anno partono dal Paese per cercare lavoro. Finiscono preda della mafia del traffico umano”.

Jakarta (AsiaNews) – Ogni anno “almeno 700mila indonesiani partono per guadagnarsi da vivere all’estero e in tutto sono già 6 milioni i lavoratori che hanno lasciato il Paese”, anche a causa della crisi economica. Lo dice p. Benedictus Hari Juliawan Sj, gesuita ed esperto di problemi socio-economici dell’Università cattolica di Sanata Dharma (Yogyakarta). Il problema dei migranti “ci mostra che anche oggi esiste una forma di schiavitù moderna – afferma il sacerdote – sofferta da persone che vengono intrappolate nella mafia del traffico umano e costrette a lavorare fino allo sfinimento in isolotti sperduti dell’Indonesia orientale. Noi lavoriamo per combattere questo fenomeno e vogliamo fare ancora di più”. La Provincia indonesiana dei gesuiti (Provindo), dal 2010 è attiva nell’aiuto ai migranti sia interni che provenienti dall’estero.

La Provindo vuole fornire sostegno economico e umanitario sia agli indonesiani che lasciano la propria terra per cercare lavoro, sia ai cittadini di Paesi del sud-est asiatico che giungono sulle coste indonesiane in cerca di un futuro migliore, finendo spesso preda di affaristi senza scrupoli. Le lavoratrici indonesiane all’estero sono oggetto di vessazioni e abusi. “Ci sono già molti gruppi umanitari che operano in questo campo – spiega p. Benedictus – ma noi vogliamo fare di più per garantire dignità a queste persone”.

“Lo scorso agosto – racconta – un mio amico della Organizzazione internazionale per i migranti (Oim), con base a Jakarta, aveva bisogno di alcuni traduttori dal birmano per facilitare l’Oim nella comunicazione con 40 pescatori nullatenenti provenienti dal Myanmar, che a quel tempo erano tenuti in detenzione per ulteriori indagini”. “Alcuni giovani gesuiti birmani che studiano filosofia a Jakarta – continua p. Benedictus – sono andati ad aiutare. La storia di questi pescatori ‘persi’, alcuni dei quali minorenni, ci ha gettato in faccia questa triste realtà”.

Come accade molto spesso, i lavoratori birmani erano stati abbindolati da offerte di lavoro in Thailandia e imbarcati su mezzi di fortuna per l’Indonesia, dove erano tenuti prigionieri su isole trasformate in campi di lavoro forzato.

 “Nel 2000 l’Onu ha approvato i Protocolli di Palermo, ma ci sono voluti sette anni per le autorità indonesiane a ‘tradurlo’ e ad applicarlo nel proprio regolamento. Questi protocolli – afferma il gesuita – stabiliscono i criteri per identificare le vittime del traffico umano, che si definisce come il ‘reclutamento, trasporto, trasferimento, tramite la minaccia o l'uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità’”.