A Vienna negoziato sul nucleare iraniano per scongiurare una crisi ‘disastrosa’
di Dario Salvi

Si aprono oggi nella capitale austriaca i nuovi colloqui per ripristinare il Jcpoa, cancellato da Trump. Un patto per restituire stabilità in un crescendo di tensioni. Dall’esito delle trattative i riflessi sui prezzi del petrolio nei mercati internazionali. Sullo sfondo Israele osserva con attenzione, pronta a colpire i siti atomici nella Repubblica islamica. 


Vienna (AsiaNews) - I negoziati sembrano essere entrati “nella fase finale” e per questo richiedono “determinazione e una profusione di energia” da parte di tutti i partecipanti “per arrivare al traguardo finale”, con il “ripristino completo del Jcpoa, inclusa la cancellazione delle sanzioni”. Dalle parole del rappresentante permanente russo Mikhail Ulyanov traspare cautela, ma anche moderato ottimismo e determinazione per una svolta attorno all’ottavo round di colloqui sul nucleare iraniano che ripartono oggi a Vienna. Un appuntamento a lungo atteso e che potrebbe risultare finalmente decisivo per reintrodurre un accordo (il Joint Comprehensive Plan of Action) che possa soddisfare tutte le parti e allentare le tensioni nella regione mediorientale. 

Nella capitale austriaca si respira un clima di attesa per l’arrivo della delegazione iraniana, che siederà allo stesso tavolo con i rappresentanti di Cina, Russia, Francia, Regno Unito e Germania nel tentativo di rilanciare l’accordo del 2015. Un appuntamento seguito con attenzione anche sul versante israeliano, con il primo ministro Naftali Bennett che, in apertura della riunione settimanale del governo, è tornato ad attaccare la Repubblica islamica: “L’Iran - ha sottolineato il premier israeliano - rappresenta la più grande minaccia per Israele e lo Stato ebraico rimarrà libero di agire su Teheran con o senza un accordo nucleare”. In quest’ottica si inseriscono le informazioni filtrate nei giorni scorsi di una esercitazione militare che simulava un bombardamento aereo contro impianti nucleari iraniani, alla quale avrebbe partecipato - ma non vi sono conferme in tal senso - anche un alto ufficiale degli Stati Uniti in cabina di regia. 

L’accordo di Obama, cancellato da Trump

Il Joint Comprehensive Plan of Action è stato firmato durante il secondo mandato del presidente Usa Barack Obama, fra i grandi sponsor di un accordo con gli ayatollah in un’ottica di pace e sicurezza in Medio oriente. Oltre agli Stati Uniti e all’Iran, il Jcpoa prevede la partecipazione di Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Germania e Unione Europa, secondo lo schema del 5+1. In origine il patto prevedeva la sospensione di tutte le sanzioni nucleari imposte precedentemente contro l’Iran dalla Ue, dall’Onu e da Washington in cambio della limitazione alle attività nucleari della Repubblica islamica; a questo si univa la concessione da parte degli ayatollah di un monitoraggio e di ispezioni costanti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) presso gli impianti iraniani. Tuttavia, l’8 maggio 2018 sotto la presidenza di Donald Trump - che ha rilanciato l’asse con Israele e l’allora premier Benjamin Netanyahu dopo gli anni di gelo con Obama - Washington si è ritirata unilateralmente dall’accordo. Inoltre, la Casa Bianca ha imposto nuove sanzioni contro Teheran (definite le più dure più dure della storia) che hanno, da un lato, aggravato le condizioni economiche del Paese, e, dall’altro lato, acuito le tensioni tra Iran e Stati Uniti. Altra conseguenza del ritiro, la ripresa degli esperimenti nucleari dell’Iran che, nell’ultimo triennio, ha violato in maniera progressiva i termini del patto sul nucleare.

L’accordo temporaneo è scaduto il 24 giugno scorso e le diplomazie internazionali sono al lavoro per un nuovo patto, sebbene Joe Biden abbia mantenuto gran parte delle sanzioni volute da Trump e che costituiscono uno dei principali, se non il maggiore ostacolo ai negoziati. Da mesi emissari statunitensi, dell’Unione europea e iraniani hanno avviato colloqui a Vienna, che hanno registrato una interruzione per le elezioni presidenziali nella Repubblica islamica nel giugno scorso con la vittoria dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi che è succeduto al moderato Hassan Rouhani, artefice del Jcpoa sulla sponda iraniana con l’allora ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif. 

Alla vigilia del nuovo round di colloqui gli Stati Uniti hanno concesso nuove deroghe alle sanzioni all’Iran per consentire progetti di cooperazione nucleare internazionale che, come ha spiegato in una lettera al Congresso il Segretario di Stato Anthony Blinken, servono a creare le condizioni per un ritorno all’accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran. Le deroghe avevano consentito alle aziende russe, cinesi ed europee di svolgere un lavoro di non proliferazione per rendere effettivamente più difficile ai siti nucleari iraniani lo sviluppo del nucleare militare. E, al tempo stesso, avevano permesso di sostenere l’economia iraniana facendola emergere da una realtà di emarginazione e isolamento. 

La cancellazione decisa da Trump aveva sollevato perplessità e critiche in ampie porzioni della società civile Usa e preoccupazione fra le cancellerie mondiali, preoccupate per una escalation della tensione dopo anni di (relativa) stabilità. In quest’ottica si legge la lettera aperta di oltre un centinaio di ex ambasciatori Usa e funzionari di alto rango del Dipartimento di Stato che si erano rivolti alla Casa Bianca e all’amministrazione statunitense affermando che il Jcpoa “rappresenta un accordo fondamentale per scoraggiare la proliferazione delle armi nucleari”.

A novembre un nuovo appello nei confronti dell’attuale presidente Biden è stato lanciato dai rappresentanti di  47 ong guidati dal National Iranian American Council (Niac). Nella missiva esperti e attivisti hanno evidenziato una volta di più che la politica di “massima pressione” a colpi di “sanzioni” non funziona, a maggior ragione oggi in cui gli sforzi sono rivolti alla ripresa dagli effetti della pandemia di Covid-19. Il loro impatto, unito alle conseguenze delle misure per contrastare il virus, ha un impatto devastante sulle famiglie iraniane e continuare a prolungarle sarebbe “imperdonabile”; al contrario, oggi è necessario raggiungere un accordo che sia ritenuto soddisfacente da tutte le parti in causa. Perché, in caso di fallimento, appare più che plausibile l’ipotesi di una vera e propria “crisi nucleare” su scala globale con effetti “disastrosi”

Jcpoa e i riflessi sul petrolio

Infine, un accordo sul nucleare iraniano potrebbe sortire effetti positivi anche sui prezzi del petrolio che hanno registrato in questi ultimi mesi un picco verso l’alto e inasprito la crisi del settore energetico e dei trasporti, già colpito dal Covid-19. Oggi i mercati registrano un lieve calo dell’oro nero dopo i massimi degli ultimi sette anni, con i future del greggio Brent scesi dello 0,35% a 92,37 dollari e i future WTI anch’essi diminuiti dello 0,24% a 91,10 dollari. I mercati osservano con favore le possibilità di un accordo, che avrebbe come conseguenza la rimozione delle sanzioni sulle vendite di petrolio iraniano, aumentando così le forniture globali. Secondo alcuni esperti, infatti, la corsa dei prezzi dei giorni scorsi rappresenterebbe un invito ulteriore alle parti in causa perché raggiungano un accordo che favorisca l’immissione di greggio sui mercati grazie all’apertura degli oleodotti iraniani. 

 

LA "PORTA D'ORIENTE" È LA NEWSLETTER DI ASIANEWS DEDICATA AL MEDIO ORIENTE
VUOI RICEVERLA OGNI MARTEDI' SULLA TUA MAIL? ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER A QUESTO LINK