07/12/2023, 12.14
LANTERNE ROSSE
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'Le regole spacciate per giustizia: così Pechino svuota il diritto in Cina e nel mondo'

di Chow Hang-tung *

L'atto di accusa scritto dal carcere di Hong Kong dove è reclusa dall'avvocata e attivista pro-democrazia Chow Hang-tung: "È indiscutibile che l'attuale ordine internazionale sia fortemente dominato dall'Occidente e ancora lontano dall'ideale del diritto come valore. Ma il modo per migliorarlo non è dare più voce a dittatori non occidentali, che possono solo far crescere il silenzio di chi non ha voce".

Hong Kong (AsiaNews) - Nei giorni scorsi il Consiglio degli Ordini degli Avvocati d’Europa ha deciso di assegnare l’edizione 2023 del proprio premio per i diritti umani agli avvocati cinesi Chow Hang-tung, Xu Zhiyong e Ding Jiaxi - tutti e tre attualmente in carcere - per il loro coraggio, la loro determinazione e il loro impegno nella difesa dei diritti umani e dello stato di diritto in Cina. Chow Hang-tung è in carcere a Hong Kong dal 2021 per il suo impegno nei movimenti pro-democrazia; Xu Zhiyong e Ding Jiaxi, fondatori nello Shandong del “Movimento dei nuovi cittadini” apertamente critico nei confronti di Xi Jinping, sono stai condannati per “sovversione”.
In concomitanza con l’assegnazione ufficiale del premio Chow Hang-tung è riuscita a far uscire dal carcere in cui è reclusa a Hong Kong un lungo discorso di accettazione. Un testo lucidissimo sul rapporto tra regole e diritto che è un duro atto d’accusa sullo svuotamento dell’idea di giustizia che Pechino sta portando avanti attraverso i tribunali a Hong Kong e nella Cina continentale. E di come questo abbia ripercussioni gravi in tutta la comunità internazionale. Pubblichiamo qui sotto ampi stralci del suo discorso in una nostra traduzione.
  

C'è una certa dose di ironia nel fatto che un prigioniero della legge riceva un premio assegnato dagli avvocati. Qualcosa deve essere andato storto quando uno che si è impegnato a servire la legge riceve invece un riconoscimento per aver presumibilmente violato la legge. Ma forse proprio questa è una buona occasione per riflettere sul rapporto dell'avvocato con la legge o, più in generale, con l'ordine basato sulle regole, siano esse nazionali o internazionali.

Un ritornello comune dei politici di tutto il mondo oggi è la necessità di sostenere un “ordine internazionale basato sulle regole”. Non basato sui diritti, né sui valori, ma sulle regole. Forse il concetto di “regole” è considerato meno politico, più neutrale, meno divisivo. Accettabile sia dai democratici sia dagli autocrati. Ma qui sta l'inghippo: anche agli autocrati piace questa formulazione, proprio perché un ordine basato sulle regole può servire loro altrettanto bene.

L'Olocausto non è avvenuto per mancanza di regole, ma per le regole stabilite dai nazisti. L'apartheid non è stato un ordine naturale, ma il risultato di regole imposte da una minoranza bianca. Milioni di uiguri non sono stati internati a causa di rappresaglie arbitrarie, ma a causa di una politica sistematica attuata attraverso una pletora di norme e regolamenti. E nella città che chiamo casa, una legge sulla sicurezza nazionale imposta unilateralmente da Pechino ha reso dei “criminali” molti miei amici, che sono ricercatori, legislatori, avvocati, giornalisti, sindacalisti e attivisti - cioè cittadini rispettosi della legge che fanno quanto hanno sempre fatto, ciò che considerano il loro dovere.

Un sistema ingiusto ha bisogno di regole per funzionare e perpetuarsi, così come ne ha bisogno un sistema giusto. Non solo, le regole possono spesso ammantare l'ingiustizia con un velo di legittimità istituzionale, facilitando l'attuazione del male su larga scala attraverso l'efficienza e l'indifferenza burocratica.

Quando il Great Firewall cinese diventa un fatto di routine sostenuto dall'autorità delle leggi, pochi continuano a riconoscerlo come la grave violazione dei diritti umani che è. Ma di certo questa massiccia infrastruttura che sbarra la strada all'informazione libera continua a essere una violazione quotidiana dei diritti all'informazione, all'espressione e alla comunicazione di miliardi di persone. Inoltre, intrappolando un pubblico che è pari a un sesto della popolazione mondiale, fornisce una solida base per far attecchire e diffondere la disinformazione e il pregiudizio, che a sua volta esporta la pressione alla censura e avvelena i dibattiti ben oltre il confine cinese. Tuttavia, le aziende tecnologiche - sia locali che straniere - non si preoccupano della loro partecipazione al più grande tentativo al mondo di controllo del pensiero, poiché possono sempre dire che stanno semplicemente “rispettando i requisiti legali”. La legge diventa così una scusa per calmare la nostra coscienza, addormentando il nostro ruolo nel male.

A Hong Kong, migliaia di manifestanti oggi sono in carcere sulla base di una legge di epoca coloniale sull'ordine pubblico, non in base a una legge fatta da Pechino. L'arma preferita dalla nostra polizia per colpire la libertà di parola è una legge britannica a lungo sopita, la legge sulla sedizione. Il mese scorso, un uomo che ha scattato alcune foto in cima a una collina con slogan tenuti in mano è stato arrestato per presunta violazione delle norme di protezione del paesaggio. Vediamo anche le leggi sul riciclaggio di denaro citate come motivo per rifiutare i servizi bancari alle ONG e ai dissidenti, le leggi sugli agenti stranieri abusate per strangolare e diffamare le organizzazioni per i diritti, e le norme antincendio ed edilizie utilizzate come un’arma per molestare i negozi e i gruppi con simpatie per la democrazia.

L’altro lato della stessa medaglia è la crescente impotenza delle cosiddette leggi "buone", prima fra tutte quelle sui diritti umani. Certo, la nostra Costituzione adotta in larga misura la Convenzione internazione sui diritti civili e politici (ICCPR), ma questo non ha fermato la continua repressione della società civile. I funzionari proclamano senza mezzi termini il loro rispetto per i diritti, mentre li calpestano impunemente. Senza persone impegnate a realizzarle - e con il potere di farlo - le leggi sui diritti umani non sono che orpelli decorativi sui codici legislativi.

I dittatori non si fanno scrupoli a "impegnarsi" pubblicamente a rispettare i principi più elevati, poiché non sono vincolati da questi principi. Invece di permettere a tali impegni di limitare la loro azione, usano queste parole per limitare il modo in cui la realtà viene percepita, in modo che la loro "rettitudine" non possa mai essere scossa. Il lavoro forzato nello Xinjiang non esiste. Le accuse di tortura sono propaganda straniera. Non è successo nulla in Piazza Tienanmen quel fatidico giorno di 34 anni fa. Con la legge dalla parte dello Stato, le voci e i fatti contraddittori vengono facilmente soppressi, screditati ed eliminati dalla vista. Lo dimostra il fatto che devo parlarvi dalla prigione e il fatto che la maggior parte dei cinesi non sa nemmeno perché Xu Zhiyong e Ding Jiaxi sono in carcere - e probabilmente non ha mai neanche sentito i loro nomi.

L'impunità in patria si traduce in impunità all'estero. In un ordine mondiale costruito sul concetto di Stati sovrani, l'azione globale di un governo è limitata solo nella misura in cui esistono vincoli efficaci a livello nazionale. Il governo cinese non si fa scrupolo di aderire o di proporre esso stesso regole di impegno internazionale che suonano piuttosto alte, solo perché difficilmente qualcuno - e tanto meno il suo stesso popolo - può chiedergliene conto.

Se il problema riguardasse solo promesse vuote e disposizioni abusate, allora l'ordine basato sulle regole sarebbe forse ancora salvabile. Tutto ciò che dovremmo fare è richiamare chi viola le regole e, quando se ne presenta l'occasione, riattivare le disposizioni trascurate. Ma possiamo farlo?

No, se il significato delle regole è completamente cambiato.

Anche in questo caso, l'esperienza di Hong Kong fornisce un esempio emblematiche. Molte delle peggiori violazioni dei diritti umani degli ultimi anni sono state sanzionate o applicate dai tribunali, e non perché i giudici abbiano improvvisamente dimenticato le nostre leggi sui diritti umani. Piuttosto, queste leggi sono state reinterpretate in modo compatibile con le gravi violazioni dei diritti umani, attraverso un sottile cambiamento del significato di parole e concetti che sono parte integrante del discorso.

In modo simile, l'ambito di ciò che sarebbe identificabile come protesta pacifica è stato costantemente compresso da un'interpretazione sempre meno rigida del concetto di "violenza", che ha portato a lunghe pene detentive per migliaia di manifestanti che non hanno commesso alcun atto di violenza, ma erano semplicemente presenti o vicini alla scena in cui è scoppiata la violenza. Così, persino i primi soccorritori e i mediatori sono stati condannati ad anni di carcere come "rivoltosi", mentre il diritto alla manifestazione "pacifica" viene a parole onorato.

Quindi, mentre in apparenza parliamo ancora lo stesso linguaggio dei diritti adottato dagli strumenti e dai precedenti internazionali, in pratica oggi c’è un enorme divario tra la comprensione dei diritti da parte dei nostri tribunali e gli standard internazionali. Le parole e il loro significato sono in definitiva malleabili e i giudici non sono miracolosamente isolati dal modo in cui la società in generale percepisce le parole e costruisce le narrazioni. Laddove tale conversazione è ampiamente libera e democratica, possiamo riuscire ad avvicinarci alla giustizia; ma se tale conversazione è bloccata o catturata da interessi di parte o, peggio, da uno Stato prepotente, il discorso giuridico ne risente.

Quanto accaduto a Hong Kong non è un'anomalia, ma un monito. Il potere del Partito di ridefinire le parole e sovvertirne il significato non si ferma al confine cinese. E mentre durante la Guerra Fredda si poteva identificare e contrastare un'ideologia e una fraseologia comunista distinta, la Cina di oggi parla invece la stessa lingua liberale dei diritti, della democrazia e della pace. Naturalmente esistono ancora differenze sostanziali, ma sono camuffate sotto una serie di frasi rassicuranti. Quanti vivono sotto il dominio del Partito, sanno che alcuni termini familiari hanno significati molto diversi nel linguaggio del Partito. I diritti non riguardano ciò che gli individui possono far valere nei confronti dello Stato, ma il conferimento allo Stato del potere di salvaguardare i "diritti" del popolo. La democrazia non riguarda i cittadini che chiedono conto ai leader attraverso la libera associazione, l'espressione e le elezioni, ma i leader che "gentilmente" ascoltano la voce del popolo attraverso canali controllati. E la pace consiste nel garantire la sottomissione all'ordine del Partito con qualsiasi mezzo, non nel rifiuto della guerra o dell'odio.

Se dunque vogliamo un ordine giusto, dobbiamo anche lavorare per costruire una giusta distribuzione del potere, invece di limitarci a venerare le regole. Solo quando il potere è veramente condiviso, le leggi possono essere l'espressione di una comunità e non la volontà di pochi. Solo quando i valori hanno più potere della forza, le leggi possono funzionare come un sistema razionale di principi invece che come una litania di comandi brutali. E solo quando le leggi esprimono fedelmente i valori di una comunità possono suscitare il rispetto e la fedeltà dei cittadini, invece di evocare solo paura e risentimento.

Difendere i diritti delle persone ovunque è più che aiutare gli altri: è il cuore della battaglia per definire noi stessi e l'ordine che abbiamo costruito. Siamo davvero una comunità basata su principi o siamo cinici come il dittatore della porta accanto? Siamo sinceri nel costruire un ordine mondiale basato sui valori, o ci accontentiamo di qualsiasi tipo di ordine, purché siamo dalla parte del vincitore?

È indiscutibile che l'attuale ordine internazionale sia fortemente dominato dall'Occidente e quindi ancora lontano dall'ideale del diritto come valore. Ma il modo per migliorarlo non è dare più voce ai dittatori non occidentali, che possono solo far crescere il silenzio di chi non ha voce. La gente comune deve essere, piuttosto, messa in grado di partecipare alla conversazione sui valori attraverso la costruzione della democrazia ovunque. Anche questo è un compito difficile e non privo di controversie, spesso tacciato di "ingerenza" quando tali sforzi e solidarietà si estendono oltre confine. Ma se abbandoniamo la ricerca della democrazia, non avremo alcuna speranza di costruire un ordine internazionale giusto e basato sui valori.

Come avvocati, il nostro mestiere è necessario in qualsiasi tipo di ordine basato su regole, buone o cattive, giuste o ingiuste. Tuttavia, la dignità della nostra professione non può sopravvivere in qualsiasi tipo di ordine. È invece legata alla dignità della legge, al fatto che la legge rifletta la nostra autonomia o la neghi. In questo senso, la costruzione di istituzioni democratiche che sole possono salvaguardare la dignità della legge è anche un dovere dell'avvocato, ed è per questo che tutti e tre noi che riceviamo questo premio oggi siamo detenuti per aver lavorato per la democrazia in Cina, una lotta che può sembrare estranea alla nostra professione, ma che in realtà è centrale per essa. È una lotta dalla quale non possiamo esimerci, anche quando sappiamo che le leggi che abbiamo servito ci condannerebbero. A volte, infatti, affrontare la legge così com'è è l'unico modo per rispettare la legge così come dovrebbe essere, e il più alto servizio che un avvocato può offrire ai suoi simili.

* avvocato di Hong Kong, in carcere per la sua partecipazione ai movimenti pro-democrazia

Foto: Iris Tong / Wikimedia

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