11/05/2025, 09.50
EDITORIALE
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Il Papa missionario: volto da scoprire giorno per giorno

di Gianni Criveller

Leone XIV in Perù la missione l'ha vissuta per primo, a lungo, come ragione di vita: è un fatto nuovo per un pontefice. Ha già parlato in maniera controcorrente dell'autorità come di uno "sparire perché rimanga Cristo". La scelta del nome denota libertà da condizionamenti e attese, ma anche radicamento in una storia di fede millenaria. Scelto per le sue qualità umane: sbaglia chi si affretta a incasellarlo in logiche geopolitiche.

Innanzitutto: Leone XIV è un papa missionario. Senz’altro il primo dei tempi moderni e, forse, di tutta la storia della chiesa. La vocazione missionaria è l’elemento qualificante della vita di Robert Francis Prevost. Lo ha detto esplicitamente nelle (piuttosto rare) interviste reperibili in rete. Ora stiamo conoscendo i suoi venti anni a Chiclayo, la diocesi del nordovest del Perù, dove si è speso per raggiungere la gente nei villaggi più remoti, a piedi o a cavallo, come i nostri vecchi missionari. Non è poco, per noi missionari, avere un papa che non solo invita alla missione, ma la missione l’ha vissuta per primo, a lungo, come la ragione di vita. Questo fa differenza.

Per secoli la missione è stata considerata come l’attività marginale di pochi missionari partiti per l’estero, mentre la chiesa rimaneva in patria tutta occupata e centrata su sé stessa. La missione non intaccava il pensiero della chiesa: la teologia della missione non faceva parte (e in molte facoltà non lo fa tuttora) del curriculum teologico. Ora non è più così: la missione è il cuore della teologia e del pensiero ecclesiale. Papa Leone lo ha confermato fin dalla prima sera: “Dobbiamo cercare insieme come essere una chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere come questa piazza con le braccia aperte”. Fare ponti (l’esatto contrario di costruire muri) è un programma iscritto nel termine pontefice, e lo è anche nel nostro nome: Pontificio istituto delle missioni estere.

Chiesa missionaria, ovvero missione che è del popolo di Dio. La sera dell’habemus papam Leone ha citato una nota frase di Agostino: con voi sono cristiano, per voi sono vescovo. Lo stesso Agostino, il riferimento spirituale e teologico di papa Leone, ne ha spiegato bene anche il senso: essere cristiano è segno della grazia e occasione di salvezza. Essere vescovo è invece l'incarico ricevuto ed è occasione di pericolo. Insomma la grazia e la salvezza sono patrimonio di tutti i battezzati e contano infinitamente di più degli incarichi che li distinguono. La grazia del battesimo, nel quale riceviamo il nome stesso di Cristo, è il fondamento della pari dignità dei credenti e della loro partecipazione nella stessa missione. Che l’autorità conti meno e che sia persino pericolosa lo conferma Leone affermando, davanti ai cardinali, che è “un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità di sparire perché rimanga Cristo”. Che programma luminoso e controcorrente.

La scelta del nuovo papa mi ha spiazzato e perciò non ho avuto fretta di scrivere queste righe. C’è bisogno di riflessione rallentata, piuttosto che di tempestività tradotta in superficialità e approssimazione. Non ho conosciuto di persona né saputo alcunché del cardinale Prevost prima dei giorni precedenti al conclave. Avevo visto il suo nome tra i papabili, ma lo escludevo con questa motivazione: non ci sarà un papa dagli Stati Uniti, la grande superpotenza ora più che mai invisa in numerose nazioni del mondo. Avevo letto della sua seconda nazionalità peruviana e del suo forte legame con l’episcopato sudamericano: ma l’America latina, avevo pensato, ha già avuto il suo papa. Era piuttosto il tempo dell’Asia, e per ragioni che mi sembravano valide. Dall’Asia venivano ottimi candidati. Mi rendo conto dell’inadeguatezza delle mie anticipazioni, troppo basate sull’interpretazione della globalizzazione ecclesiale come di una necessaria strategia. Altri commentatori commettono ora lo stesso errore, sottolineando fortemente la nazionalità del papa come se di lui fosse la cosa più importante, o addirittura considerando la sua elezione una risposta al presidente Trump. Di certo i cardinali non scendono così in basso.

Mi sono persuaso invece che il cardinale Prevost sia stato eletto per le sue qualità umane, culturali, intellettuali, spirituali, pastorali e missionarie: sono le sole cose che davvero contano, dal momento che nella chiesa nessuno è straniero o valutato per la sua provenienza. Credo che i cardinali non abbiano pensato che i continenti debbano a turno esprimere un papa: hanno piuttosto semplicemente scelto la persona ritenuta migliore. Prevost non era conosciuto dall’opinione pubblica, ma credo che negli anni di servizio a Roma come priore generale degli Agostiniani prima e come prefetto del Dicastero dei vescovi poi, si sia fatto conoscere da tanti lasciando, senza clamori, una traccia positiva nell’animo di chi lo ha conosciuto e poi eletto.

La prima parola del papa è stata pace: la stessa pronunciata da Gesù risorto e risuonata nella notte del suo natale. Pace qualificata con aggettivi molto evocativi, disarmata e disarmante, dei quali abbiamo già scritto qui. Ha scelto il nome Leone, in riferimento a Leone XIII che per rispondere alle sfide della rivoluzione industriale ha inaugurato la dottrina sociale, un patrimonio di insegnamenti -questo lo dico io- perlopiù ancora sconosciuto e inapplicato. Oggi siamo trascinati nella travolgente rivoluzione dell’intelligenza artificiale, dalle profonde conseguenze antropologiche e sociali, e dunque come fece Leone XIII, il nuovo papa avrà una speciale attenzione ai temi della giustizia sociale, della dignità umana e del lavoro. In sintesi: si profila un programma di giustizia e di pace. Il papa vuole impegnare se stesso, la chiesa e l’umanità intera a realizzare questi due beni fondamentali che discendono dall’annuncio del vangelo.

Trovo tuttavia che, per quanto suggestivo e ben motivato, il nome Leone sia un riferimento piuttosto lontano e immediatamente significativo solo a pochi. Forse ci sono altri motivi devozionali molto personali, ma credo soprattutto che il papa abbia scelto un nome inatteso come atto di personalissima e intima libertà. Libertà dai condizionamenti e dalle attese che i nomi dei papi più recenti possono portare con sé. La commozione e la timidezza della sua prima apparizione mi fanno pensare ad un uomo che ha sì consapevolezza dei suoi limiti, ma che è anche capace di essere sinceramente libero, non altri che sé stesso. È il quattordicesimo papa a chiamarsi Leone: mi sembra che non voglia porsi come principio di qualcosa di nuovo, ma più semplicemente come parte di una storia di fede millenaria che lo precede e che lo seguirà, che viene da lontano e che continuerà anche dopo di lui.

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