16/10/2020, 10.22
VATICANO
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La missione ad gentes, paradigma nella pandemia

di Bernardo Cervellera

“Uscire” dalla propria cultura e dal proprio Paese è possibile solo se si è ricchi della fede in Gesù Cristo.  Questo crea la differenza. Per molti, la pandemia ha voluto dire chiusura, isolamento, paura del contagio, disinteresse, depressione, nichilismo. Per molti altri ha significato uscire, nutrire, confortare, consolare, piangere, sperare. I missionari non sono solo degli operatori umanitari. Il dono più grande che possiamo fare al mondo non è un po’ del nostro benessere, ma la fede stessa.

Roma (AsiaNews) - Con il mondo che affonda nella pandemia, con i viaggi all’estero che diventano sempre più difficili, con le quarantene obbligatorie da un Paese all’altro, ha senso parlare di missione e di missione in altri Paesi non cristiani?

Di più: con la crisi economica che avanza e che sta per travolgere l’Italia e il mondo, con le povertà che emergono anche in zone un tempo ricche o benestanti, con lo spaesamento di anziani e giovani nel nostro Paese, è giusto pensare di fare all’estero il missionario di una religione spesso bollata come “straniera”?

Noi, missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere) crediamo di sì.

La pandemia, la sua scia di morti, il dramma dell’insicurezza sulla salute, i lockdown ci hanno buttato in faccia la precarietà del nostro vivere, e davanti agli amici che scompaiono, al nostro sentirci soli e impotenti si è riproposta la domanda: che valore ha il vivere? Basta il benessere che abbiamo cercato, la salute che abbiamo curato per essere felici?

La felicità può essere soltanto un grande amore che uno si trova davanti, in cui si percepisce accolto e confortato. Questo è il motivo della fede e della missione. La fede è anzitutto la scoperta, l’esperienza di essere stato amato come mai al mondo da uno che è Uomo e Dio, e per questo non ti tradisce, ed avere provato questo amore nell’amicizia di qualcuno che è suo.

Questo amore fa sfidare la pandemia. In questo periodo vi sono stati sacerdoti che hanno confortato malati terminali e talvolta sono morti loro stessi di Covid-19. Vi sono stati anche medici e infermieri che hanno osato tanto. In India, divenuto il secondo Paese dell’Asia per contagi, in pieno lockdown ogni parrocchia ha aperto una mensa per i poveri, per i milioni di lavoratori a giornata che a causa della chiusura di negozi e fabbriche si sono trovati in un attimo senza lavoro, senza salario, senza un tetto, senza cibo.

Per molti, la pandemia ha voluto dire chiusura, isolamento, paura del contagio, disinteresse, depressione, nichilismo. Per molti altri ha significato uscire, nutrire, confortare, consolare, piangere, sperare.

Nel Messaggio che papa Francesco ha diffuso per la Giornata missionaria mondiale 2020, che in Italia si celebrerà il 18 ottobre, egli scrive: “Siamo veramente spaventati, disorientati e impauriti. Il dolore e la morte ci fanno sperimentare la nostra fragilità umana; ma nello stesso tempo ci riconosciamo tutti partecipi di un forte desiderio di vita e di liberazione dal male. In questo contesto, la chiamata alla missione, l’invito ad uscire da sé stessi per amore di Dio e del prossimo si presenta come opportunità di condivisione, di servizio, di intercessione. La missione che Dio affida a ciascuno fa passare dall’io pauroso e chiuso all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé”.

La missione è un uscire da sé perché si è ripieni dello “amore di Dio e del prossimo” e perché abitati dalla certezza che l’Uomo-Dio è al nostro fianco. Questo essere ripieni e abitati vale sempre, anche nella pandemia e forse soprattutto nella pandemia.

In questo periodo – e il mese missionario di ottobre cade a pennello – bisogna guardare ai missionari. Papa Francesco ha definito i missionari e la missione “paradigma della vita e della pastorale della Chiesa”.

Paradigma vuol dire: modello, esempio, misura. Di cosa? Dell’uscire in nome di un bene ricevuto, comunicando agli altri la radice della gioia che ci abita.

E perché andare all’estero, con tutto il bene che si potrebbe fare in Italia? Andare all’estero significa riscoprire e testimoniare quello che davvero permane nella vita: al di là dei cambiamenti di clima, di vestire, di mangiare, di cultura, di lingua, rimane la fede, la persona di Gesù nel missionario. E questa testimonianza diventa importante anche per chi rimane in patria, in Italia.

Troppo spesso in Italia si pensa che i missionari siano solo degli operatori umanitari: gente che costruisce pozzi, o scuole, o cappelle, o orfanotrofi. Certo, anche questo, ma solo se si è motivati, spinti, sostenuti dal desiderio di comunicare il mistero della vita di Gesù.

In Italia, proprio perché si vive un livello di vita molto più alto di tanti Paesi africani o asiatici o latino-americani, si pensa che in fondo il missionario debba solo andare agli emarginati, alle periferie della città. Ma vi sono periferie e solitudini anche nei centri città. Il vero problema per i cristiani in Italia è di riscoprire che il dono più grande che possiamo fare al mondo non è un po’ del nostro benessere, ma la fede stessa, il vero tesoro per cui abbiamo lasciato tutto e abbiamo seguito il Signore.

È impressionante guardare le statistiche della Chiesa nel mondo. Le ultime disponibili dicono che fra il 2015 e il 2016 i cattolici battezzati nel pianeta sono passati da 1285 milioni a 1299 milioni, con un aumento complessivo relativo pari all’1,1 per cento. Con due grandi eccezioni: in Africa, dal 2010 al 2016 la popolazione cattolica è cresciuta del 23,2%; in Asia, è cresciuta di oltre l’1%, mantenendosi all’11% della popolazione del continente (4,5 miliardi, ossia il 60% della popolazione mondiale); in Europa vi è una crescita dello 0,2%.

Papa Francesco dice che nella Giornata missionaria mondiale ogni cristiano deve sentire la chiamata di Dio che dice: “Chi manderò e chi andrà per noi?” (Isaia 6, 8). E speriamo che invece di farci dominare da indifferenza o paura, possiamo rispondere come il profeta Isaia: “Eccomi manda me!”.

(Questo articolo è apparso anche sul settimanale “Ortobene”, Nuoro)

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