30/01/2012, 00.00
TIBET – CINA
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Non il darsi fuoco, ma il “modello Wukan” può salvare il Tibet

di Wang Lixiong
Soltanto cercando vera autonomia a livello di base, nei villaggi, i tibetani possono sperare di vincere la loro guerra contro la Cina. Il coraggio di chi si è auto-immolato non può nascondere il fatto che, in questo modo, il Tibet è condannato a sparire per sempre.
Dharamsala (AsiaNews) – Nel corso del 2011, secondo i dati ancora parziali delle Ong, in Tibet sono state uccise dalla polizia circa 70 persone. Altri 16, quasi tutti monaci, si sono dati fuoco in piazza per protestare contro la repressione cinese e per chiedere libertà religiosa e il ritorno del Dalai Lama. Le autorità comuniste hanno arrestato e condannato 230 tibetani per aver manifestato contro il governo, e il numero dei detenuti politici è così arrivato a 830.

Ma la situazione sembra lontana dalla calma. Il braccio di ferro fra Pechino e i tibetani sembra destinato a finire con la repressione totale dell’etnia, schiacciata dal potere economico e militare cinese. Tuttavia una strada c’è: secondo Wang Lixiong, famoso scrittore e docente di etnia han, il Tibet deve seguire l’esempio di Wukan, il villaggio cinese che ha combattuto e vinto contro la corruzione del regime e il furto delle proprie terre.

Wang, che ha insegnato tibetologia anche a Pechino, esprime “rispetto” per i martiri, ma avverte che “nel fuoco, il coraggio rischia di diventare spazzatura”. Presentiamo di seguito il testo completo della sua analisi, pubblicato sul Phayul.


Ho un profondo rispetto per coloro che si sono auto-immolati. Che abbiano avuto o meno una visione chiara della situazione, che le loro intenzioni fossero realistiche e raggiungibili o meno, la loro azione collettiva ha ispirato il coraggio di una nazione. Il coraggio è una risorsa preziosa, in particolare per chi è più debole, perché spesso proprio questo coraggio è la chiave per vincere contro chi è più forte. E auto-immolarsi richiede il massimo del coraggio. Gli sconvolgenti spiriti eroici di questi 16 tibetani all’interno del Tibet, insieme a Sopa Rinpoche di Amdo Golok, hanno raggiunto l’apice del coraggio. Hanno dimostrato di essere i simboli della loro nazione.

Ma la questione è però un’altra: come si potrebbe utilizzare una tale preziosa risorsa di coraggio? Continuare a bruciare tale coraggio nel fuoco delle auto-immolazioni vuol dire, da ora in poi, trasformarlo in spazzatura. La testimonianza di questi martiri dovrebbe invece essere usata in maniera più produttiva: è questo quello che i pionieri della protesta hanno sperato, ed è questo che meritano.

Coloro che si sono dati fuoco hanno compiuto un atto non violento. Eppure, l’auto-immolazione è violenza, anzi è la violenza peggiore: cambia soltanto l’oggetto che si colpisce, in questo caso se stessi. Infliggersi violenza, oltre a essere una forma di protesta disperata e di difesa della propria dignità e onore, può avere una sua efficacia. Gandhi diceva che “possiamo influenzare il governo con le nostre sofferenze”, mentre Martin Luther King sosteneva che “dovremmo smetterla di creare sofferenza e imparare a subirne di più, perché così svegliamo le nostre coscienze”.

Tuttavia, i presupposti di questi detti si basano sull’esistenza di una coscienza. Un regime autoritario è composto da strutture rigide, logiche incomprensibili e interessi burocratici. Si è forse vista la coscienza del regime cinese, quando migliaia di studenti sono stati messi a morte a piazza Tiananmen? Questo è il limite dell’impegno non violento: la decisione finale non viene presa da chi soffre ma dal governo. Le sofferenze sono utili solo fino a che esercitano pressione sul governo, ma questo governo non ha intenzione di scendere a patti. La crisi del Tibet è inevitabile.

La prima domanda alla quale si dovrebbe rispondere è in che direzione il Tibet dovrebbe andare. Io credo che oggi come oggi il Tibet sia in un vicolo cieco, e persino gli eroici sacrifici dei monaci ci fanno comprendere come essi si sentano in realtà senza alcuna speranza. Questi gesti, pur creando forti emozioni, sono frutto dell’ignoranza. Definire tali martiri-suicidi delle persone coraggiose, ma non sagge, non sarebbe giusto. La saggezza non è una tecnica per agire in maniera imprudente e ai limiti della vita, ma è un concetto di lungo respiro che guida il Tibet fuori da questa crisi: una cosa di cui il popolo non dovrebbe e non può essere responsabile.

D’altra parte, considerare il Dalai Lama - oramai ritirato dalla vita politica – come unica fonte di saggezza è irresponsabile. Il leader religioso ha già indicato la non violenza e l’approccio “di mezzo” come strada da seguire. Tocca ai politici trovare la saggezza necessaria per materializzare questi scopi. Ma questa saggezza non si vede ancora. La Cina tiene in una mano del denaro, ma nell’altra ha il pugnale: il Tibet – che dovrebbe essere rappresentato da un governo in esilio che però non fa molto, tranne diramare dei comunicati – non sa cosa fare davanti a queste mani. Per favore, dite ai coraggiosi tibetani cosa possono fare. Sapere cosa dovrebbero e cosa possono fare li aiuterà a vivere, a non rischiare le loro tragiche auto-immolazioni per dei piccoli articoli di giornale.

Il Dalai Lama ha fissato come scopo per il Tibet una vera autonomia, che è stata chiesta sin dall’inizio. Ma questo potrebbe avvenire solto in caso di un gesto di clemenza da parte di Pechino. Questo, come provano in maniera chiara gli sforzi del passato, è una mera illusione. Il Dalai Lama ha ricercato l’autonomia nei parametri imposti dalla Costituzione cinese, mentre la Cina ha sempre messo in pratica le leggi dell’auto-regolamentazione dei villaggi.

E allora perché la lotta per la genuina autonomia del Tibet non può partire proprio dalla ricerca dell’autonomia in ogni villaggio tibetano? Una vera autonomia dovrebbe essere costruita dalla base, gradino dopo gradino, e in maniera graduale espandersi fino a un’autonomia regionale nazionale. Un punto di partenza di autonomia di base alla fine condurrà di certo in futuro a una autonomia regionale nazionale.

L’autonomia dei villaggi funziona però soltanto se la gente comune partecipa, si rende attiva nella gestione: non c’è bisogno di aspettare in maniera passiva i negoziati graduali e senza frutti fra i leader; non c’è bisogno di protestare sotto il tiro dei fucili o persino scegliere l’auto-immolazione per mettere pressione ai leader.

Per come la vedo io, portare il Tibet fuori da questa crisi dovrebbe iniziare dall’autonomia dei villaggi. Sebbene l’autonomia non è così rilevante per le questioni etniche ma per quelle relative ai diritti umani, ai diritti di estrazione mineraria, all’ambiente e alla religione, aiuterà a evitare i conflitti etnici e a interagire con i movimenti popolari per i diritti in Cina e a divenire parte di essi, ottenendo di conseguenza il sostegno del pubblico cinese generale.

Il villaggio di Wukan, nel Guangdong, è l’esempio più recente. Quando il villaggio si è ribellato, il segretario del Partito comunista e il presidente del villaggio sono stati costretti a scappare. Ogni abitante ha scelto un rappresentante, e tra loro sono stati scelti i membri del consiglio del villaggio. Questo consiglio autonomo, oltre a gestire il villaggio in perfetto ordine, garantisce anche il diritto a esistere degli abitanti e mantiene l’ordine e la legge anche senza bisogno della repressione del governo e delle minacce della polizia. Esso è divenuto secondo i media di Hong Kong, “la prima organizzazione eletta dagli abitanti del villaggio che è stata approvata dal governo”.

Gli abitanti dei villaggi tibetani possono riuscire in questo? Anche i villaggi tibetani hanno tutte le condizioni di Wukan. Se un villaggio tibetano ci riesce, il Tibet avrà già una bandiera. Quando dieci villaggi avranno successo, allora la notte inizierà a scivolare via, illuminata dall’alba. E quando i villaggi saranno cento, all’orizzonte si alzerà una vera autonomia che abbraccerà il Tibet.

Detto questo, immagino che qui si porrà una domanda molto familiare: quello che il popolo cinese può fare, i tibetani non lo possono fare; i tibetani saranno accusati di essere separatisti e quindi dovranno affrontare la repressione ecc… Abbiamo ascoltato questi dubbi per molto, troppo tempo. A questa domanda si può rispondere con una semplice frase: se non siete spaventati dall’auto-immolazione, cos’altro potrebbe spaventarvi?

Il coraggio di una nazione, qui diventa un’arma magica per arrivare alla vittoria.
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