21/10/2025, 13.00
THAILANDIA
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'Danneggiano il clima': l'ultima bugia contro le popolazioni indigene thailandesi

di Lisa Bongiovanni

La denuncia di un nuovo rapporto di Asia Centre: attraverso notizie false o fuori dal loro contesto viene promossa nell'opinione pubblica locale l'idea che la presenza dei gruppi tribali (mai ufficialmente riconosciuti da Bangkok) e le pratiche tradizionali siano "un ostacolo alla tutela delle foreste". Ma tanti racconti dimostrano esattamente il contrario (e mostrano le responsabilità dei gruppi economici, nonostante i tentativi di green-washing).

Milano (AsiaNews) - In Thailandia per allontanare le popolazioni indigene dalle loro terre viene sempre più utilizzata anche la disinformazione climatica. A sostenerlo è il nuovo rapporto Climate Disinformation in Thailand: Negating Indigenous Peoples’ Identity, diffuso nelle scorse settimane dall’Asia Centre. Lo studio mostra come, partendo da un presupposto legittimo - l’urgenza di contrastare la crisi climatica e in particolare la deforestazione - si stia sviluppando una catena di azioni che lede in modo sproporzionato i diritti delle comunità indigene.

Secondo questo studio l’informazione ambientale in Thailandia viene distorta con meccanismi di disinformazione (dati intenzionalmente falsi con lo scopo di fuorviare linterlocutore) o malinformazione (informazioni corrette, ma parziali, private del loro contesto critico) che fanno ricadere le colpe dell’emergenza proprio sulle popolazioni indigene. E l'accettazione pubblica di queste narrazioni crea spazio a misure più severe da parte delle autorità, che vanno dalla criminalizzazione attraverso leggi restrittive, all’intimidazione, alla stessa violenza fisica nei confronti di questi gruppi. In pratica, la disinformazione climatica crea un circolo vizioso: convince l'opinione pubblica della responsabilità delle popolazioni indigene, generando così una licenza sociale per risposte statali repressive.

Nel 2024, la popolazione thailandese ha raggiunto i 66 milioni di abitanti. Di questi, circa 10 milioni (una persona su 7) appartiene a uno dei 60 gruppi indigeni distribuiti in tutto il Paese ma non ancora riconosciuti ufficialmente. Abitano principalmente in tre aree: negli altopiani settentrionali, nove chao khao (tribù delle colline) sono ufficialmente riconosciute dal governo thailandese, praticano l’agricoltura a rotazione e rituali animisti intrecciati al buddhismo o al cristianesimo. A Nord-Est, vivono invece comunità come i Kuy e i North Khmer. Infine, a sud i Chao Ley (popoli del mare), continuano a dipendere dalloceano per la loro sopravvivenza, mentre i Maniq, cacciatori-raccoglitori delle montagne, fondano la propria esistenza su un legame profondo con la foresta.

Questa parte consistente della popolazione ha un legame viscerale con il territorio, spesso di tipo anche religioso, e dalla terra riceve tutto il proprio sostentamento. Sebbene rappresentino una parte consistente degli abitanti reali, il 95% non è legalmente riconosciuto come cittadino; una marginalizzazione figlia della convinzione nazionalista dell’esistenza di un’unica identità, secondo la quale le popolazioni indigene sarebbero "non thailandesi" e le loro rivendicazioni percepite come minacce alla sicurezza nazionale.

Secondo i dati raccolti da Global Forest Watch, nonostante i molteplici interventi legali, la deforestazione nel Paese continua ad aumentare. A livello internazionale Bangkok ha espresso il suo impegno aderendo ad accordi come quelli di Parigi nel 2016. A livello nazionale, invece, la governance del cambiamento climatico ha ricevuto una spinta importante soprattutto tra il 2014 e il 2019, quando il Paese era governato dalla giunta militare: in quegli anni, la protezione delle foreste era stata militarizzata dando ai militari il potere di reclamare le aree forestali occupate illegalmente. Questo ha significato, in pratica, lo sgombero di comunità indigene dalle terre che abitavano da generazioni, considerate illegalmente occupate” perché ricadenti dentro i confini di nuove aree protette.

Dal 2019, con il passaggio dalla giunta militare al governo “civile” (peraltro a lungo guidato dall’ex generale Prayut Chan-o-cha) le procedure e gli obiettivi precedenti sono stati mantenuti anche attraverso contraddizioni interne nella stessa legislazione. Per esempio: il Community Forest Act (2019) promette di coinvolgere le comunità locali nella gestione delle foreste; tuttavia, il National Parks Act (2019) annulla di fatto questa apertura, espandendo le aree protette e inasprendo le sanzioni per chi ci vive o ci lavora. Ne consegue che le comunità indigene possono abitare solo le foreste fuori dalle aree protette - una porzione molto limitata di terra rispetto al passato.

Il rapporto delinea quattro forme di “disinformazione climatica”, analizzandole nel dettaglio. La prima riguarda le verità parziali: fatti reali raccontati in modo selettivo, che omettono gli impatti negativi delle politiche statali e delle attività delle imprese. Seguono i casi di green-washing, dove strategie di marketing verde” mascherano pratiche economiche che continuano a danneggiare lambiente. Poi ci sono le false soluzioni climatiche che celano la crescita delluso di combustibili fossili. Infine, vi sono una serie di narrazioni distorte che dipingono - appunto - le popolazioni indigene come minacce alla natura anziché come custodi. Al contrario una marea di narrazioni presentano i progetti governativi e le iniziative aziendali come decisamente progressivi, mentre le popolazioni indigene vengono relegate al ruolo di ostacoli arretrati e dannosi.

La disinformazione è frutto anche della crisi nel settore dell’informazione che ha spinto i media locali a tagliare alcune sezioni considerate “non essenziali”, a favore di notizie economiche e politiche. Il risultato è una carenza di giornalisti specializzati in temi climatici e quindi una copertura superficiale, spesso affidata a non esperti. Questa crisi si riflette nella gogna mediatica che colpisce le popolazioni indigene, accusate di danneggiare le foreste e aggravare la crisi climatica. In una conferenza stampa, un funzionario statale ha affermato che il 99% degli incendi boschivi a Chiang Mai tra il 2019 e il 2020 sarebbero stati causati dalle pratiche agricole tradizionali dei gruppi indigeni. In realtà alcuni studi dellUniversità di Warwick rivelano che le aree protette sono più soggette a incendi boschivi quando si trovano lontano dalle comunità indigene. Nel villaggio Karen di Pa Pae a Doi Chang, nella provincia di Lamphun, un leader locale ha guidato un gruppo di giovani volontari per combattere gli incendi, installando un sistema artigianale di nebulizzazione dacqua e lavorando in turni di dodici ore per contenere le fiamme. Il loro intervento ha salvato intere aree boschive, ma questo tipo di informazioni difficilmente trovano spazio nelle testate principali.

Questa disinformazione climatica che legittima laccanimento contro le comunità indigene, si inserisce in un contesto in cui il governo thailandese a parole dichiara un rinnovato impegno per la loro tutela. L11 settembre, il Parlamento ha approvato un disegno di legge di amnistia volto a riabilitare quanti sono stati ingiustamente criminalizzati dalle politiche di bonifica forestale militarizzate e nazionaliste dellex premier Prayut. Pochi giorni dopo, il 18 settembre, è entrata in vigore la Legge per la Protezione e la Promozione dello Stile di Vita dei Gruppi Etnici”, che promette di salvaguardare le tradizioni culturali e lo stile di vita di queste minoranze. Tuttavia, continuano a essere definiti giuridicamente gruppi etnici” e non popoli indigeni”, escludendoli dai diritti che sarebbero loro riconosciuti a livello internazionale.

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