05/10/2023, 12.44
LANTERNE ROSSE
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Dissidente deportato dal Laos in Cina, l'altro volto degli affari nel Sud-est asiatico

L'avvocato Lu Siwei - fermato a luglio a Vientiane mentre cercava di fuggire dalla Repubblica popolare - si trova in un centro di detenzione del Sichuan nonostante i moniti dei funzionari del Consiglio dei diritti umani dell'Onu. Lo stesso dove Pechino il 10 ottobre cerca la rielezione per un nuovo triennio.   

Milano (AsiaNews/Agenzie) - Arrestato in Laos e deportato in un carcere della Repubblica popolare cinese. A nulla sono valsi gli appelli degli organismi internazionali: l’avvocato cinese per i diritti umani Lu Siwei si trova nel centro di detenzione di Xindu nel Sichuan. A renderlo noto è stata la moglie Zhang Chunxiao, esule negli Stati Uniti, che nel luglio scorso aveva dato la notizia del fermo del marito in Laos, dove si trovava nel tentativo di lasciare anche lui la Cina.

Zhang Chunxiao ha dichiarato a Radio Free Asia che la famiglia di Lu Siwei in Cina ha ricevuto un avviso dal centro di detenzione che chiede l’invio di vestiti, medicine e denaro. Lu Siwei soffre di una grave malattia della pelle ed è senza medicine da più di due mesi. Durante la telefonata non è stato precisato da quanto si trovi in Cina o con quali accuse sia detenuto. Lo scorso mese l'ambasciata cinese in Laos aveva inviato al Ministero laotiano della Pubblica Sicurezza una comunicazione in cui si afferma che è stata autorizzata la sua detenzione penale per aver attraversato illegalmente il confine. Su queste basi Pechino chiedeva alle autorità laotiane il trasferimento “nel più breve tempo possibile”.

Lu Siwei ha difeso gli avvocati arrestati nel "caso 709" e quelli arrestati nel "caso dei liquori del 4 giugno" a Chengdu. Nel 2021, il dipartimento giudiziario del Sichuan gli ha revocato la licenza di avvocato per aver rappresentato 12 persone di Hong Kong, gesto ritenuto una "minaccia alla sicurezza nazionale". È già stato vittima di intimidazioni e molestie mentre si recava all'udienza per la sua radiazione. Dal maggio 2021 era soggetto anche a un divieto di uscita dal Paese. Era arrivato in Laos via Vietnam e quando è stato fermato stava salendo su un treno per la Thailandia, da dove avrebbe cercato di raggiungere la sua famiglia negli Stati Uniti.

Sul caso di Lu Siwei era intervenuto in agosto anche un gruppo di alti funzionari del Consiglio dell’Onu per i diritti umani che avevano ricordato al governo del Laos che “in base al diritto internazionale il principio di ‘non refoulement’ garantisce che nessuno deve essere rimpatriato in un Paese in cui potrebbe subire torture, trattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti e altre forme di violenza”. Se Liu Siwei fosse stato trasferito in Cina - scrivevano - si sarebbe trattato di una violazione dell’articolo 3 della Convenzione contro la tortura, di cui il Laos è un Paese firmatario.

In forza dei legami sempre più stretti con Pechino il governo di Vientiane ha evidentemente voluto ignorare questi richiami. E - all’ombra degli affari della Belt and Road Initiative - in tutto il Sud-est asiatico ora cresce la preoccupazione dei dissidenti cinesi, che non si sentono più al sicuro nemmeno fuori dai confini della Repubblica popolare cinese. Il caso di Li Siwei, per esempio, era seguito con attenzione anche da Chen Siming, un altro attivista cinese che da due settimane si trova nell'aeroporto di Taiwan da dove ha avanzato una richiesta di asilo politico. Anche lui aveva seguito la stessa strada, fuggendo in Laos e poi in Thailandia per sfuggire a una minaccia di internamento in un ospedale psichiatrico per aver commemorato le vittime di Tiananmen.

Tutto questo succede alla vigilia dell’appuntamento del 10 ottobre, quando la Repubblica Popolare Cinese cercherà (e con ogni probabilità otterrà) la rielezione per un altro triennio in quello stesso Consiglio dell’Onu per i diritti umani che dovrebbe vigilare su queste violazioni.

 

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