25/10/2014, 00.00
EGITTO
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Egitto, giovani cattolici: La rivoluzione è stata tradita, ma il futuro appartiene a noi

di Giulia Mazza inviato
Martine, 26 anni, vive e lavora al Cairo. Il problema della discriminazione in Egitto nasce da "classi sociali molto definite". Gli insegnamenti di uguaglianza, rispetto e compassione nelle scuole cristiane "sono un beneficio anche per gli studenti musulmani". I moti del 2011 "sono stati rubati agli egiziani" da altri Paesi e (in parte) dall'autorità militare. "Serviranno almeno 50 anni per cancellare gli errori del passato".

Il Cairo (AsiaNews) - "Un Egitto più democratico e più pulito - dalla corruzione, dai rifiuti, dall'inquinamento, dal traffico -, che ponga la salute e l'istruzione tra le priorità. Perché se l'ambiente in cui si vive debilita il corpo, anche la produttività e l'economia ne risentono. E solo l'educazione ti aiuta a essere più creativo, civile, ad avere nuove idee e a rispettare quelle degli altri". Martine, 26 anni, greco-cattolica, ha le idee chiare su come vorrebbe che diventasse il suo Paese. Laureata all'università del Cairo in economia e scienze politiche, un anno di studio in Francia, oggi lavora come project manager in una multinazionale americana. Purtroppo però, aggiunge ad AsiaNews, "per ottenere questo ci vorrà del tempo, e le persone devono essere pazienti. In Egitto abbiamo imparato a fare le cose con facilità ed è per questo che ora fatichiamo: perché non c'è un modo facile per uscire dai nostri problemi".

Cresciuta in una buona famiglia, Martine (nella foto, la seconda da sinistra) non ha mai vissuto esperienze particolarmente negative con persone di fede islamica. "La questione - sottolinea - è che in Egitto le classi sociali sono molto definite. Il contesto da cui provieni e in cui cresci condiziona molto la persona che diventerai. Io sono nata e vivo a Heliopolis, che è un quartiere tranquillo della città; ho frequentato istituti cristiani e tanti miei compagni erano musulmani. A scuola ci hanno insegnato l'uguaglianza; che non ci sono differenze tra esseri umani; a essere compassionevoli; a rispettare le reciproche religioni e idee". Questo, spiega, "si traduceva in gesti molto semplici. Durante il digiuno del Ramadan, noi cristiani mangiavamo in modo discreto. Nelle grandi celebrazioni, come Natale o Pasqua, anche i musulmani partecipavano alla messa, per rispetto e per dimostrare che nella nostra scuola eravamo un'unica famiglia".

Della sua infanzia, l'unico ricordo spiacevole risale a quando aveva sette anni. "Prendevo lezioni di tennis - racconta - e una mia amica era musulmana. Un giorno venne da me e mi disse: 'Sono triste, perché tu andrai all'inferno'. Le chiesi perché. Lei mi rispose: 'Perché sei cristiana e i miei genitori hanno detto che i cristiani andranno all'inferno'. Corsi da mia madre in lacrime, mi disse che non era vero e che non potevo più essere sua amica". A posteriori, Martine ammette che anche quello che disse sua madre "era sbagliato. Se mi fosse accaduto più tardi, le avrei spiegato cosa vuol dire essere cristiani, che quello in cui crediamo è pieno di amore, e che anche se il 'tramite' delle nostre due religioni è diverso, entrambe crediamo in Dio".

Se però il luogo da cui si proviene può, come nel caso di Martine, farti crescere in una sorta di "bolla", il contatto con la realtà prima o poi arriva. Nel suo caso, è avvenuto all'università. "Ero nella sezione francese - sottolinea -, che è gemellata con altre università in Francia. I miei compagni provenivano da ambienti simili al mio. Ma quando frequentavo le classi di arabo, ho conosciuto persone molto diverse da me: alcuni venivano da ambienti chiusi, altri avevano studiato in casa. Altri ancora non avevano mai conosciuto un cristiano e pensavano che credessimo in tre dei. Ho anche ricevuto volantini che consigliavano alle ragazze di indossare il velo, per essere più vicine a Dio".

L'ingresso nel mondo degli adulti, per Martine come per tanti altri suoi coetanei, è segnato in modo inevitabile da quanto accaduto negli ultimi tre anni. Il periodo della prima rivoluzione democratica, iniziata il 25 gennaio 2011, lo ricorda come "un incubo". "Da quando sono nata - spiega - Mubarak era presidente dell'Egitto. Era parte della mia quotidianità. L'università però, soprattutto quando ho iniziato a studiare economia e scienze politiche, mi ha aperto la mente e ha cambiato il mio modo di vedere quello che accadeva nel mio Paese. Ho visto una dittatura, e tante ingiustizie. Nel 2011 ero particolarmente furiosa, perché alle ultime elezioni parlamentari [2010, ndr] il partito di Mubarak ottenne il 98% dei seggi. Non solo dimostrava l'evidente corruzione, ma anche il completo disinteresse delle autorità a fingere o tentare di ingannare il popolo egiziano con una percentuale più ragionevole. Quando ne parlavo con i miei amici francesi, mi sono vergognata e arrabbiata".

Poi, qualcosa cambia. In una chiesa ad Alessandria, un'esplosione uccide diversi cristiani, tra cui amici di Martine. Intanto, su Facebook e sui social media vengono postati video di persone torturate nelle stazioni di polizia. "Le persone - spiega -, e i giovani soprattutto, iniziano a rendersi conto di quanto sta accadendo e non vogliono più accettare in silenzio come ha sempre fatto la generazione dei loro genitori. Le persone più grandi volevano sicurezza; i giovani un futuro".

Quanto accaduto dopo la caduta di Mubarak, per Martine è "confuso, poco chiaro e senza alcun senso". Pur riconoscendo lo spirito democratico delle rivolte iniziate il 25 gennaio 2011, secondo lei quella egiziana è stata "una rivoluzione tradita", dalla quale "tanti altri attori hanno tratto benefici dalla fine del regime e dall'instabilità dell'Egitto". Le figure che sembravano avere un'ideologia più liberale e una mentalità più aperta, come Muhammad al-Barade'i, "non sono state abbastanza forti per combattere".

Quello di cui è certa, è la presenza costante - anche se dietro le quinte - dell'autorità militare: "L'esercito ha giocato la sua parte sin dalla prima rivoluzione. Dubito che Mubarak si sia dimesso perché colpito dalle richieste del suo popolo. E credo anche che, alle prime elezioni democratiche nel 2011, i militari abbiano lasciato vincere Mohamed Morsi e i Fratelli musulmani. Come se l'unico modo per mostrare al mondo di cosa erano davvero capaci, fosse quello di dare loro potere".

E infatti, "loro hanno vinto, hanno fatto tanti errori e alla fine sono caduti, ma non per merito di un'altra rivoluzione. Ciò che ha fatto il movimento Tamarod, portando più di 30 milioni di persone nelle strade per mandare via il governo Morsi, è stata una 'soft revolution'. L'unico a poter rispondere subito alle richieste della popolazione era l'esercito. Sarebbe stata una vera rivoluzione se l'autorità militare avesse svolto il ruolo di mediatore, favorendo la destituzione di Morsi e traghettando il Paese verso elezioni libere, con un presidente scelto tra il popolo e per il popolo".

Così non è stato, e l'attuale presidente è l'ex generale Abdel Fattah al-Sisi, che ha dismesso le sue cariche militari prima di candidarsi alle elezioni.

Il tradimento della rivoluzione, spiega Martine, "non è rappresentato da al-Sisi in quanto tale, quanto da ciò che lui rappresenta, ovvero il ritorno a un'ideologia in cui l'autorità militare è al potere. Alle ultime elezioni, io ho votato scheda bianca, perché non ero convinta da nessuno dei candidati ed ero spaventata dal potere dell'esercito. Sono onesta: oggi ho meno paura, e pur vedendo delle cose che non mi piacciono voglio dare una possibilità a questo governo, che qualcosa di buono sta facendo". Tuttavia, resta un problema fondamentale: "Di fatto, pur riconoscendo la loro esperienza, abbiamo le stesse persone di sempre ad affrontare gli stessi problemi di sempre. L'Egitto ha bisogno di giovani, nuovi linguaggi e nuove idee. Serviranno almeno 50 anni per cancellare tutti gli errori del passato. Se continuiamo a curare la stessa malattia con la stessa medicina, e vediamo che non migliora, allora forse è giunto il momento di cambiare medicina".

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