10/06/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La missione rutena del papa di Roma

di Stefano Caprio

Francesco cerca di costruire ponti proprio mentre la “terza guerra mondiale a pezzi” li distrugge, elevando muri e scavando trincee o addirittura annegando paesi e città sotto il diluvio bellico. L'iniziativa affidata al card. Zuppi è anche un’ottima “copertura” dei tanti sforzi umanitari di tutte le istituzioni della Chiesa cattolica in Ucraina e in Russia. E tra Roma, Mosca e Kiev è un nuovo capitolo di una lunga storia.

Molte speranze, anche se ben poche illusioni, sono riposte nei tentativi della Santa Sede di far ragionare di pace la Russia e l’Ucraina, dopo oltre quindici mesi di guerra insensata e di resistenza strenua. La visita del cardinale Matteo Maria Zuppi a Kiev, che potrebbe presto proseguire con un analogo viaggio a Mosca, non aveva lo scopo di proporre misure concrete per iniziare trattative assai improbabili, mentre sono in corso scontri apocalittici che hanno portato alla devastazione della zona di Kherson, con l’esplosione della diga di Nova Khakovka, quanto di più simile al Diluvio Universale.

Zuppi è certamente la figura più rappresentativa del desiderio di papa Francesco di porre un freno alla follia della guerra. Unico cardinale romano, amico personale di Bergoglio, tanto da figurare spesso nelle liste dei “papabili”, membro storico della Comunità di S. Egidio, la struttura di “diplomazia parallela” della Chiesa cattolica, già negoziatore in Mozambico e in altri contesti, egli è anche il presidente della Conferenza episcopale italiana, rappresentando quindi la comunità di un Paese tradizionalmente amico della Russia, pur essendo nettamente schierato per la difesa dell’Ucraina dall’invasione.

La missione dell’arcivescovo di Bologna, città “di confine” tra nord e sud della stessa Italia, è anche un’ottima “copertura” dei tanti sforzi di tutte le istituzioni della Chiesa cattolica in Ucraina e in Russia, i nunzi e i vescovi locali, le associazioni caritative e le stesse parrocchie. L’attenzione primaria della Chiesa è sempre alle persone, prima che alle strategie politiche, militari ed economiche: è la cura dei profughi, dei bambini abbandonati e deportati, dei prigionieri (tra gli ostaggi dei russi ci sono anche dei preti cattolici) e delle famiglie, spesso devastate dalla perdita della casa e degli uomini uccisi in combattimento, oltre alle tante vittime dei bombardamenti e dei disumani massacri perpetuati in molte città. Non a caso Zuppi si è recato in visita a Buča, luogo dell’orrore più straziante di questa guerra.

Papa Francesco cerca di costruire ponti fin da prima dell’inizio dell’invasione putiniana (come recita il suo stesso titolo di pontefice) proprio mentre la “terza guerra mondiale a pezzi”, ormai saldati in un unico grande fronte mondiale, sta distruggendo tutti i ponti, elevando muri e scavando trincee, addirittura annegando paesi e città sotto il diluvio bellico. Nella letteratura russo-ucraina dei tempi antichi, sotto l’invasione tataro-mongola dei secoli medievali, spiccava la leggenda della città di Kitež, affondata nel lago Svetlojar al di là del Volga, che riemerge a intervalli regolari per affermare l’eternità del popolo russo, nonostante le devastazioni.

La leggenda fu ripresa in un’opera musicale dal grande compositore ottocentesco Nikolaj Rimskij-Korsakov, membro del gruppo di musicisti che cercavano di ritrovare l’anima russa. Egli esaltava la figura della santa Fevronia, una ragazza che stava per celebrare il suo matrimonio al momento dell’invasione, diventando poi immagine spirituale di una città invisibile, di un “popolo nuovo” inaffondabile. Sembra che russi e ucraini debbano rileggere meglio i tesori della propria cultura, senza cercare di appropriarsene soltanto per la propaganda, come ha fatto nei giorni scorsi il patriarcato di Mosca con l’icona della Trinità di Rublev.

Il Vaticano non dimentica mai le storie passate, neanche quelle dei Paesi lontani, e guarda alla Russia e all’Ucraina che dovranno risorgere dopo l’invasione e la devastazione, dal lago di sangue e vergogna in cui sono affondate per l’ennesima volta nella storia. La missione di pace riguarda il futuro, sperando che non sia troppo lontano, anche perché a tutti appare evidente che nessuna delle due forze in campo ha davvero le risorse per annientare definitivamente il nemico, per quanto si sforzino gli alleati, gli eserciti e i mercanti d’armi di aumentare il loro volume di fuoco.

Il papa di Roma offre il suo sostegno alla pace in queste terre fin dai tempi antichi, ritenendolo uno snodo cruciale per tutto il cristianesimo universale. L’invio di cardinali e ambasciatori a Mosca e a Kiev è un classico delle relazioni con quella che nel linguaggio curiale veniva chiamata la Ruthenia, nome latino dell’antica Rus’, che oggi viene riservato agli slavi “di mezzo” tra le terre settentrionali e quelle balcaniche. Si ricordano due lettere del papa Innocenzo IV (quello dello scontro con l’imperatore svevo Federico II) al principe Aleksandr Nevskij, colui che cercava di salvare la Rus’ sotto la dominazione mongola, in cui il pontefice proponeva di riunirsi alla sede romana, o almeno di rappacificarsi con i Cavalieri teutonici, gli eredi dei Templari che Aleksandr aveva sconfitto, facendoli annegare nei ghiacci estoni del lago Peipus. Il papa suggeriva di costruire una grande cattedrale “unitaria” nella libera città di Pskov, dove insediare l’arcivescovo cattolico dei Prussiani per mediare con tutti i popoli in lotta, tartari compresi. Nel 1251 si presentarono addirittura davanti al principe due cardinali con una bolla papale, dopo una missione di successo nelle terre della Galizia (attuale Ucraina) e della Lituania, attirate alla comunione latina. Il principe Aleksandr, che da Novgorod si era insediato a Vladimir, da cui aveva avuto origine anche Mosca, preferì tenersi stretto il suo metropolita ortodosso, che per i ricorsi della storia si chiamava Kirill, inviandolo dai tartari sul Volga per difendere gli interessi dei russi, rifiutando la mano tesa del papa di Roma. Rispose: “La Rus’ non ha bisogno di voi”.

Molte altre missioni possono essere ricordate, a cominciare da quella del compagno di sant’Ignazio di Loyola, il gesuita Antonio Possevino, che cercò invano di convincere Ivan il Terribile ad accordarsi con Roma. La più creativa risale alla metà del Quattrocento, quando il papa Paolo II propose al gran principe Ivan III una fidanzata bizantina di stirpe imperiale, Zoe Paleologa, che si era rifugiata a Roma dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi. La speranza del papa era che il matrimonio avrebbe messo fine al dissidio tra i russi e il mondo cattolico occidentale, e la fece accompagnare a Mosca proprio dall’allora arcivescovo di Bologna, Antonio Bonombra, che guidava il corteo con la croce latina, ma fu subito pregato di farsi da parte dalle guardie del granduca. La principessa divenne moglie di Ivan (e nonna di Ivan il Terribile), tornando all’Ortodossia e cambiando il nome con uno che i russi consideravano proprio, quello di Sofia.

Un altro grande dei gesuiti di prima generazione, il polacco Petr Skarga, convinse i russi ortodossi del regno di Polonia ad accettare l’Unione con Roma nel 1596, come risposta alle pretese del patriarcato di Mosca, istituito sette anni prima. Fu di fatto l’inizio della storia moderna dell’Ucraina, poi confermato dalle rivolte dei cosacchi, e per un secolo in quelle terre il passaggio dall’Ortodossia al Cattolicesimo (e ritorno) fu la norma delle relazioni ecclesiastiche, con momenti drammatici e rappacificazioni “eterne”, anche se presto smentite. L’imperatore “occidentalista” Pietro il grande, che condusse campagne belliche per venticinque dei suoi quasi trent’anni di regno, si considerava ortodosso quand’era a Mosca e cattolico quando visitava la sottomessa Polonia, facendo anche la comunione alla Messa latina. Non riuscì a recarsi a Roma nella sua “Grande ambasciata” di fine Seicento, limitandosi a una visita notturna a Venezia prima di tornare a Mosca, ma poi pensò di fondare nel 1703 una nuova capitale simile alla città lagunare, San Pietroburgo che significa “città di San Pietro”, la nuova Roma, la città natale di Putin e del patriarca Kirill.

Nell’Ottocento la Santa Sede riuscì perfino a concludere un Concordato con gli zar di Russia, che però non venne mai attivato, anche per la contrapposizione degli stessi cattolici di Russia, Ucraina e Bielorussia, che preferivano vedersela da soli con la corte di San Pietroburgo. Un nuovo tentativo avvenne nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, con un accordo stilato insieme al Governo provvisorio del socialista democratico Aleksandr Kerenskij, anch’esso poi affondato dal colpo di Stato dei bolscevichi di ottobre. Neppure questa volta il Vaticano si arrese: per iniziativa del visionario gesuita Michel d’Herbigny, venne istituita la Commissione Pro Russia, formalmente mai soppressa, per valutare tutte le possibili vie per il dialogo e la penetrazione cattolica nello Stato ateo sovietico. Pure questa iniziativa rimase senza risultati pratici, e quando Stalin decise di sopprimere la Chiesa greco-cattolica in Ucraina, con lo Pseudo-Sinodo di Leopoli del 1947, si cercò di salvare il salvabile nella clandestinità e nella sofferenza del lager.

Il cardinale greco-cattolico ucraino di Leopoli Josif Slipyj, dopo anni di detenzione, fu liberato grazie a lunghe trattative e sistemato a Roma, dove rimase come capo silenzioso della Chiesa-martire fino al 1983, quando morì nella cattedrale di Santa Sofia, costruita sulla via Boccea per ricordare quanto i sovietici avevano soppresso o addirittura distrutto in patria. Le trattative proseguirono fino al Concilio Vaticano II, in cui a sorpresa si presentarono i rappresentanti del patriarcato di Mosca, e papa Giovanni XXIII riuscì perfino a mettersi in mezzo tra Kennedy e Khruščev, che a Cuba avevano sfiorato la guerra nucleare. Esistono ancora oggi le immaginette, e perfino i gruppi scultorei con i tre “araldi della pace” di America, Russia e Vaticano, che aprirono la fase apparentemente “pacifica” della Guerra fredda novecentesca.

La cattedrale della via Boccea è oggi uno dei centri più attivi nell’assistenza ai fratelli della patria ucraina, accogliendo i profughi e raccogliendo i soccorsi da inviare. Anche questa è missione di pace, anzi soprattutto questa, a cui partecipano non solo papi e cardinali, ma preti e laici, semplici fedeli e famiglie, uomini e donne di buona volontà. In questo la Chiesa cattolica è impegnata da sempre, senza attendere gli incontri al vertice e le trattative ufficiali. E nel sorriso del card. Zuppi si esprime la certezza che, con l’aiuto di Dio, l’Ucraina e la Russia riemergeranno dalle acque del male come la leggendaria città di Kitež, per cominciare insieme una vita nuova.

 

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