09/05/2025, 09.40
RUSSIA
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La piazza della Vittoria e la polveriera del Daghestan

di Vladimir Rozanskij

Proprio mentre oggi Putin celebra con i capi di tutti i Paesi “amichevoli” la parata per gli 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Dmitrij Stešin - uno dei corrispondenti dal fronte ucraino più accaniti nel sostegno alle truppe russe - parla del clima rovente nella repubblica del Caucaso settentrionale: "Il Daghestan vive secondo le proprie leggi, allontanandosi sempre di più da Mosca”.

Mosca (AsiaNews) - Mentre in queste a Mosca si celebra la parata della Vittoria, con il presidente cinese Xi Jinping e i capi di tutti i Paesi “amichevoli” e sostenitori della gloria putiniana sul palco del mausoleo di Lenin, barricando la capitale e tutte le grandi città con difese antiaeree e anti-intrusione elettronica, nel Caucaso settentrionale la Russia rischia di esplodere dall’interno. Una delle repubbliche più importanti e strategiche, il Daghestan affacciato sul mar Caspio, confinante con la Cecenia e l’Azerbaigian, si sta trasformando sempre più in una zona fuori controllo da parte del Cremlino.

Dmitrij Stešin - uno dei corrispondenti di guerra più accaniti nella propaganda della guerra in Ucraina, di cui non si vede la fine nonostante i mesi di trattative con gli americani - ha lanciato un allarme sul clima sempre più rovente di questa regione dove si accalcano diverse etnie, in conflitto da secoli tra di loro e con i russi. La denominazione della repubblica significa “Paese delle montagne” dal termine turcico Dagh, e i 3 milioni di abitanti di queste alture si dividono in una trentina di nazionalità, tra cui gli avari, i darghini, i cumucchi e i lezgini, di incerta provenienza o parentela, oltre agli azeri, ai tatari nogai e gli ebrei delle montagne chiamati in vari modi, principalmente come Dāgh Čufut, oggetto di pogrom da tempi antichi, che si stanno rinnovando ultimamente come all’aeroporto di Makhačkala, lo scorso anno.

La radicalizzazione religiosa islamica ha provocato infatti diversi eventi drammatici nei mesi scorsi, sullo sfondo di una crisi occupazionale sempre più grave e di una natalità a livelli record per la Federazione russa, il 59% in più di tutte le altre regioni. Il 6 maggio Stešin ha diffuso un commento in cui afferma che “il Daghestan vive secondo le proprie leggi, allontanandosi sempre di più da Mosca” e non si vedono prospettive di sviluppo sociale, i giovani lasciano in massa la regione, e quelli che restano si fanno sempre più coinvolgere da movimenti radicali.

Non si possono dimenticare le drammatiche circostanze della guerra civile del 1999, un conflitto breve, ma intenso, nella quale i cittadini daghestani scesero in prima linea contro l’invasione dei jihadisti della “Brigata islamica internazionale”, provenienti dalla Cecenia. Il progetto era quello di trasformare una repubblica multietnica e multireligiosa come il Daghestan, la più estesa di tutto il Caucaso settentrionale, in un avamposto dell’estremismo islamico per destabilizzare tutta l’area, instaurando un emirato di stampo wahabita in un Paese a maggioranza sunnita. Oggi il progetto si rinnova in una fase di riaggregazione di forze che sembravano debellate, e gli influssi provenienti dall’Afghanistan e dalla Siria si fanno sentire in maniera sempre più preoccupante.

Parlando con abitanti del luogo, il blogger russo si è sentito dire che “oggi da noi non servono tanti ragionamenti, ma soltanto la sfacciataggine e la spacconeria”. La popolarità dell’islam radicale cresce soprattutto nelle famiglie più istruite, ricordando quando ancora nel 2010 ci fu un attentato alla metropolitana di Mosca, e la colpevole fu individuata in una ragazza, figlia del direttore di una scuola che in quel momento era ricercato per altri attentati, e che diffuse le congratulazioni “per mia figlia, diventata una brava šakhidka”, una “attentatrice suicida”. A giugno dello scorso anno, una serie di attentati soprattutto a luoghi di culto ortodosso ha provocato la morte di 4 civili, tra cui un sacerdote, e 15 poliziotti, tutti da attribuire alla sezione del Vilayat Kavkaz, legati agli attentatori tagichi che fecero quasi 150 morti a marzo, nella strage del Krokus City Hall della periferia di Mosca.

Se in Cecenia il potere è tutto nelle mani del fedelissimo putiniano Ramzan Kadyrov, e pure vacilla per le sue cagionevoli condizioni di salute, nel Daghestan multietnico non c’è mai stata in trent’anni la possibilità di instaurare una efficace “verticale del potere” come piace al Cremlino. Dominano comunque i clan delle montagne e l’infrastruttura amministrativa appare sempre più debole, sullo sfondo di una delinquenza inarrestabile e la sensazione di impunità che incoraggia anche i potenziali terroristi. Più che una “regione della Russia”, il Daghestan assomiglia più a una “libera zona”, una polveriera ancora più difficile da sottomettere dell’intero Donbass ucraino dove si dispiegano le maggiori forze dell’esercito di Mosca, che prima o poi dovranno provare a spegnere i focolai del Caucaso settentrionale.

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