21/10/2014, 00.00
ASIA
Invia ad un amico

La "volatilità" delle Borse, segnale preoccupante sullo stato di salute dell'economia mondiale

di Maurizio d'Orlando
Il sostegno delle banche centrali ha evitato che nell'anniversario del "lunedì nero" del 19 ottobre 1987 si ripetesse quello storico tonfo. Ma i mercati sono drogati e se le banche centrali smettono di pompare liquidità in dosi sempre più massicce sarà il collasso.

Milano (AsiaNews) - Le borse mondiali hanno ricordato in uno strano modo, con un grande incremento dell'indice di "volatilità",  l'anniversario dello storico tonfo del "lunedì nero", il 19 ottobre 1987. In quell'occasione, 27 anni fa, l'indice Dow Jones registrò in brevissimo tempo una perdita del 22.61%, il peggiore crollo della storia della borsa americana. Ai non addetti ai lavori già questo termine "volatilità" risulta oscuro, mentre sta semplicemente a significare un momento di forti e rapidi movimenti dei prezzi all'ingiù ed all'insù. È quello che abbiamo osservato nei giorni scorsi, con le borse giù anche più del 4 % in un giorno (con Atene che perde fino ad oltre il dieci per cento), per poi tornare di nuovo su. La forte volatilità è indice di un forte nervosismo di fondo ed a questo proposito anche molti esperti non sanno darsene una spiegazione convincente.

Ci sono infatti ragioni sia per un ottimismo di fondo che per un pessimismo di base.

Una ragione di ottimismo è data dall'economia statunitense, che dalla fine della Seconda guerra mondiale è stata in tutto il mondo il vero traino dell'economia non solo occidentale ma anche di quei Paesi che politicamente sono o sono stati avversari. Gli Usa sembrano di recente aver recuperato un ruolo come oasi di prosperità, cui il mondo può guardare come parametro di un prossimo ritorno alla "normalità", quella di prima del momento Lehman, di prima della crisi del 2008. La speranza di molti, forse di quasi tutti è cioè che la bufera sia passata e si possa guardare con fiducia ad un prossimo rientro a quel modello di continuo sviluppo, pur tra momentanei alti e bassi, che ha caratterizzato gli ultimi sessanta anni. Rispetto al fondo toccato agli inizi del 2009 gli indici azionari si sono ripresi con vigore recuperando in tutto le perdite ed hanno anzi toccato nuovi massimi, la disoccupazione ufficiale è scesa ai minimi da sei anni a questa parte, mentre le imprese e le famiglie americane hanno ridotto il forte carico di indebitamento che le caratterizzava. Inoltre è alta la probabilità che i costi dell'energia rimangano bassi, così come bassi sono i tassi di rendimento delle obbligazioni e quindi basso è il costo del denaro per le grandi imprese. Tutto ciò dovrebbe dare solide basi alla fiducia che il brutto incubo di sei anni fa stia finalmente per dissolversi.

Di contro, però, altri segnali ci danno un'opposta prospettiva. Il Giappone e l'area dell'euro, quasi ogni giorno mostrano nuovi segni o rinnovati segnali di croniche debolezze, mentre dai mercati emergenti non provengono cenni di incoraggiamento per la crescita mondiale. La Cina, che all'inizio aveva sostenuto gran parte della domanda mondiale, anche grazie al massiccio incremento della spesa pubblica per infrastrutture, per contrastare la fase calante del ciclo economico mondiale, ora costituisce un  freno perché si è esaurita la spinta, artificiale, data dai consumi pubblici (improduttivi). Il Brasile, che pure inizialmente sembrava aver meno risentito della crisi nella fase acuta del 2008 2009, ora fa fatica a districarsi dalla recessione in cui è entrato ufficialmente dall'inizio dell'anno. Altrettanto si può dire del Sud Africa, la maggiore economia del continente nero e per considerazioni diverse anche dell'India. Della Russia è ben visibile l'effetto delle sanzioni e dei bassi prezzi dell'energia. Ci sono poi i grandi eventi politici e sociali: la guerra nella regione mesopotamica, il precario stallo in Ucraina, l'epidemia di Ebola che si allarga anche al di fuori del continente africano, ma soprattutto le tensioni tra due grandi potenze nucleari come gli USA e la Russia.

I segnali sono dunque contrastanti e questo spiegherebbe la volatilità di cui si diceva prima. Davvero è così? Davvero l'economia non è che una forma di divinazione come quella dell'antico paganesimo, ambigua ma con la pretesa, a posteriori, di aver previsto tutto correttamente? "Ibis redibis non morieris in bello" diceva l'oracolo della Pizia: andrai, tornerai, non morirai in guerra o viceversa andrai, non tornerai, morirai in guerra: tutto dipende da dove nel testo latino si posiziona la virgola. Nonostante lo sforzo di tanti pseudo esperti di economia non è così, perché l'economia non è solo storia, dottrine politiche e sociali, politica e rapporti di forza o infine l'immaginario di filosofi dell'economia. L'economia è anche matematica dei fatti e per conoscere i fatti occorre in primo luogo avere il desiderio della verità che è sempre una e non è ambiguità.

Un indizio che la volatilità osservata sui mercati non sia solo un segno di ansietà dovuto a segnali contrastanti ce lo da il grafico degli andamenti delle quotazioni SP 500 della borsa americana. Sovrapponendo l'andamento di borsa degli ultimi sei anni a partire dagli inizi del 2009 con l'analogo periodo degli anni precedenti il crollo del 1987 notiamo un'impressionante somiglianza. La grande, macroscopica differenza è ovviamente che questa volta non si è prodotto il crollo di allora e c'è una precisa ragione: a sostegno delle quotazioni di borsa sono intervenute le banche centrali, così come è stato il caso per la ripresa dei valori di borsa a partire dal 2009. Le banche centrali, ed in primo luogo la Fed, hanno evitato il tonfo anche perché ora si sono dotate di tutta una serie di strumenti con cui pompano liquidità nei mercati finanziari e nelle borse merci che trattano materie prime. Dobbiamo dunque dire loro grazie?

Per prima cosa bisogna rendersi conto che le banche centrali non sono uno strumento pubblico ma delle entità private, delle banche e più precisamente delle banche consortili, che quindi operano non nell'interesse pubblico ma del sistema bancario di cui sono espressione. A partire dal momento Lehman le banche centrali (per prima la Fed, la Banca d'Inghilterra e la banca centrale cinese, seguite poi dalla BCE e dai nipponici, quindi dal resto del mondo) hanno immesso liquidità comprando dalle banche titoli spazzatura. In questo modo hanno salvato il sistema bancario e con esso quello finanziario, cioè i mercati obbligazionari ed azionari. Per l'economia reale, cioè le imprese e le famiglie, c'è stato un effetto ottico, l'illusione di ricchezza finanziaria data dal recupero delle quotazioni. Non c'è stato però un effetto reale. Ad esempio, nonostante che i dati ufficiali della disoccupazione, di cui si è detto prima, siamo effettivamente migliorati, il dato reale è che negli ultimi anni non vi è stato alcun miglioramento e semmai un peggioramento, come ci dimostra un economista di vecchia scuola, John Williams. È bastato semplicemente variare alcune definizioni di che cosa si intenda per disoccupazione per avere dei dati strutturalmente più "piacevoli". Lo stesso dicasi per l'indice dei prezzi, l'inflazione ufficiale, basta togliere o mettere nel paniere questo o quel prodotto.

A cascata poi si possono ottenere dei dati di crescita economica, l'incremento del PIL, migliori. Se si depurano i dati ufficiali da questi interventi cosmetici, si vedrà che le varie maggiori economie mondiali non hanno avuto crescita ma decrescita, cioè sono rimaste in una fase non più di semplice recessione ma sono in uno stato di depressione che si va cronicizzando. Altrettanto dicasi delle quotazioni di borsa e dei prezzi delle materie prime. L'intervento, ovviamente indiretto, distorce completamente la dinamica di domanda ed offerta e ovviamente i valori di mercato. Per dare solo un'idea, i volumi delle transazioni giornaliere sui mercati di alcune materie prime superano in molti casi la produzione mondiale annuale di questo o quel bene. A partire dalle materie prime dunque tutto è distorto in un modo in cui ormai quasi nessuno si rende più conto. Il capitalismo interventista delle banche centrali e del dirigismo dei governi espressione di esse è tale che quando si sente perciò parlare di liberismo o di libero mercato viene quasi da ridere, anche ci sarebbe piuttosto da piangere. Viviamo perciò in un sistema capital-comunista non solo in Cina ma quasi ovunque nel mondo, quale neanche George Orwell era riuscito ad immaginare.

Siamo perciò giunti a comprendere i motivi di fondo dell'ansietà dei mercati, la cosiddetta volatilità. I mercati sono drogati e se le banche centrali smettono di pompare liquidità in dosi sempre più massicce sarà il collasso. Potrà durare ancora a lungo così? Chi scrive è convinto che il collasso del sistema è matematicamente certo, perché è nei fatti, frutto di più di sessanta anni di illusione keynesiana e di più di tre secoli di storia in cui,  nel corso delle varie vicende anche belliche, il controllo dell'economia è stato sempre da parte delle banche centrali. La ragione è che gli attivi di bilancio di tutte le banche centrali si sono gonfiati a dismisura. Questo è il classico segno che una banca è prossima all'implosione.

Quello che invece è opinabile è il meccanismo con cui il collasso si verificherà. Chi scrive ipotizza che il futuro collasso sarà di tipo iperinflattivo e non deflattivo, come negli anni trenta del secolo scorso. Appena vi sarà un serio crollo di borsa le banche centrali cercheranno di usare il solito tanto amato strumento, l'irrorazione monetaria a pioggia, ma questa volta sarà l'uragano.  Ad un'economia drogata bisognerà dare ancora più droga e questa volta il finto sviluppo sarà vera iperinflazione perché ormai l'organismo, il sistema economico, ha perso ogni contatto con la realtà. Sul quando il collasso avverrà si potrebbe ricordare il monito del Vangelo: nessuno sa l'ora ed il giorno. Un'ipotesi senza pretese però è permessa. Chi scrive pensa che quando il prossimo anno, o tra due anni o comunque nel prossimo futuro, inizieranno ad uscire i dati di bilancio delle imprese quotate in borsa con i dati provenienti dall'economia reale potremmo forse vedere che un piccolo sassolino staccatosi da una montagna può diventare una valanga.

 

 


Vedi http://www.shadowstats.com/

La crescita economica è calcolata a prezzi correnti, anno su anno. All'incremento nominale del PIL, il "reddito" di un paese, va perciò sottratto l'effetto dell'inflazione monetaria. Se si sottostima l'inflazione, è ovvio che il PIL risulterà migliore.

 

 

TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
Si rivaluta lo yuan: 7 per un dollaro
10/04/2008
La Banca del Giappone vende yen, la valuta perde il 5% sul dollaro
31/10/2011
La crisi del dollaro preoccupa Riyadh, che ridiscute il cambio col riyal
28/01/2008
Cresce, ma di meno, l'avanzo commerciale della Cina
11/01/2008
Mosca vuole l’aiuto di Pechino per ridurre la dipendenza dal dollaro
29/10/2020 11:49


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”