11/01/2023, 13.00
IRAN
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Onu: processi ‘arma’ contro il dissenso. Ma Teheran prosegue nella repressione

L’Alto commissario per i diritti umani attacca l’uso “brutale” della forza da parte della Repubblica islamica. La magistratura sconfessa Khamenei e impone di colpire con forza le donne che non indossano correttamente il velo. Dalla prigione di Evin una attivista racconta torture e brutalità. Rilasciata la 38enne cristiana arrestata prima di Natale. 

Teheran (AsiaNews) - Il governo iraniano usa i processi e la pena di morte “come un arma” per “punire” i manifestanti pro-democrazia e per “instillare paura” in una popolazione che si batte per la libertà e i diritti, con l’obiettivo di sopprimere il dissenso. É quanto denuncia l’Alto commissario Onu per i diritti umani Volker Türk, che in una nota diffusa ieri condanna con forza la “brutale repressione di Stato” imposta dai vertici della Repubblica islamica nei confronti delle proteste di piazza. Una rivolta popolare giunta ormai al quarto mese e innescata dalla morte, per mano della polizia della morale, della 22enne curda Mahsa Amini per non aver indossato correttamente il velo islamico.

L’esecuzione nell’ultimo mese di quattro giovani coinvolti nelle manifestazioni, prosegue Türk, in seguito a “dibattimenti rapidi che non soddisfacevano le garanzie minime di un processo equo e giusto” sono una violazione evidente dei diritti umani.

“Il governo dell’Iran - conclude l’alto funzionario delle Nazioni Unite - servirebbe meglio i suoi interessi e quelli del suo popolo ascoltando le loro rimostranze e intraprendendo le riforme legali e politiche necessarie”. L’obiettivo dovrebbe essere quello di “garantire il rispetto della diversità di opinione, i diritti alla libertà di espressione e di riunione e il pieno rispetto e protezione dei diritti delle donne in tutti i settori della vita”. 

Nonostante i ripetuti appelli e condanne di gran parte della comunità internazionale, di ong pro-diritti umani e di movimenti attivisti, Teheran prosegue con il pugno di ferro nei confronti di una protesta che, dopo le ultime esecuzioni e condanne a morte, prosegue nel silenzio. Nei giorni scorsi la guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, aveva usato toni conciliatori sull’hijab - forse nel tentativo di arginare l’ondata di protesta - sottolineando che anche le donne che non lo indossano correttamente sono “nostre figlie” e non vanno emarginate.

In realtà proprio in queste ore è arrivata una nota dei vertici della polizia, che intimano di punire “con decisione” quante non portano il velo secondo i dettami della sharia, che stabiliscono di coprire perfettamente il capo e i capelli. La legge “Hijab e castità” in vigore nella Repubblica islamica richiede a donne e bambine di età superiore ai nove anni di indossare un velo in pubblico. “Rimuovere l’hijab è un crimine - afferma il vice procuratore generale Abulsamad Khorramabadi citato dall’agenzia semi-ufficiale Mehr - ed è obbligo delle Forze dell’ordine arrestare gli autori di reati e di condurli davanti all’autorità giudiziaria per la giusta punizione”.

Processi, condanne a morte, impiccagione dei manifestanti e l’esposizione dei loro corpi ormai privi di vita e sospesi alle gru ha generato una notevole dose di terrore fra la popolazione, finora scesa in piazza - e con in prima fila le donne - per una lotta di libertà e diritti. Secondo alcuni analisti, il “successo” dell’uso della forza per reprimere le più imponenti manifestazioni di natura politica e sociale degli ultimi anni potrebbe rafforzare l’opinione nella leadership di reprimere ogni forma di dissenso. Tuttavia, l’apparente vittoria rischia di alimentare ancor più il risentimento della popolazione, di una società civile e soprattutto dei giovani che vedono svanire le speranze di un futuro di maggiore libertà, a fronte di una situazione economica critica, di disoccupazione e di mancanza di prospettive. 

Violenze che emergono anche da uno dei rari racconti provenienti dal carcere e che riesce a superare le maglie della censura. L’attivista sta studiando legge in prigione. Nella lettera descrive come l’ala “culturale” di Evin - dove fa gli esami - è stata trasformata in un edificio di “tortura e interrogatorio” e lei stessa in prima persona ha visto giovani sottoposti a domande pressanti, intimidazioni, violenze fisiche e psicologiche. “La sala - scrive - è piena di ragazzi e ragazze e si sentono le grida dei torturatori”. Secondo quanto riferisce il movimento attivista Hrana, finora sono stati uccisi almeno 519 manifestanti, fra i quali 69 bambini, e altri 19.300 sono stati arrestati. Nei giorni scorsi è invece tornata in libertà - dietro pagamento di cauzione - la 38enne cristiana Bianka Zaia, arrestata a fine novembre per “coinvolgimento” nelle manifestazioni di piazza e per “propaganda contro lo Stato” e detenuta anch’essa nel carcere di Evin. 

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