31/01/2023, 08.48
ASIA CENTRALE
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Uzbekistan e Kirghizistan si accordano su frontiera contesa

di Vladimir Rozanskij

Per il confine lungo 1.314 chilometri le due parti hanno avuto scontri armati con molte vittime. Accordo su sfruttamento congiunto delle risorse nelle zone interessate. Nella regione rimane in piedi ancora la disputa territoriale tra kirghisi e tagiki.

Mosca (AsiaNews) – La conclusione della lunga vertenza sulle frontiere tra Uzbekistan e Kirghizistan, sancita il 27 gennaio a Biškek dai presidenti Mirziyoyev e Žaparov, appare come una luce nella nebbia delle frontiere che delimitano i Paesi dell’Asia centrale. Le ex repubbliche sovietiche sono eredi di una confusione voluta dal regime comunista per frazionare e controllare le tensioni etniche di questi popoli.

Il confine con l’Uzbekistan è il tratto più lungo del territorio del Kirghizistan, distendendosi per 1.314 chilometri. Le dispute si sono spesso trasformate in conflitti, che hanno provocato anche molte vittime. A novembre dello scorso anno le autorità dei due Paesi avevano annunciato di aver raggiunto una definizione comune della controversia durata oltre 30 anni.

L’esperto di questioni dell’Asia centrale, il politologo di Novaja Gazeta Arkadij Dubnov, ha commentato la situazione su Currentime.tv, dichiarandosi molto soddisfatto dell’accordo raggiunto: “Un evento di portata storica, dove sembrava ci fossero pretese reciproche insormontabili, contraddizioni, ambizioni e incomprensioni di ogni genere”. Viene così risolto il “penultimo problema di confine” di questa regione, essendo ancora aperto il contenzioso tra lo stesso Kirghizistan e il Tagikistan.

Ora la frontiera con l’Uzbekistan è stata riconosciuta invece come “interstatale”, grazie soprattutto alla volontà politica del presidente uzbeko Mirziyoyev e di quello kirghiso Žaparov: quest’ultimo ha dovuto soffocare la protesta interna per la cessione del bacino idrico di Kempir-Abad. La speranza, si augura Dubnov, è che tutte le persone arrestate in seguito a queste proteste vengano liberate al più presto, per evitare il riaccendersi del conflitto. Il punto è che i contestatori dell’accordo “non hanno proposto alcuna alternativa credibile”, considerando che questi siti cruciali per le risorse idriche ed energetiche erano rimasti indefiniti dall’eredità sovietica.

L’accordo prevede in effetti una cessione territoriale, ma lo sfruttamento delle risorse andrà a vantaggio di entrambi i Paesi, e “non serve rivendicare un possesso dimostrativo”, sostiene il politologo, ma “saper lavorare per il bene comune e rimanere in rapporti pacifici con i vicini”. La speranza di tutti è che l’accordo raggiunto possa ispirare un’analoga soluzione per il problema con il Tagikistan, ma gli osservatori non sono  molto ottimisti in questo senso.

A Dušanbe tutto è in mano al potere assolutista del presidente Emomali Rakhmon, con il quale è difficile trovare compromessi accettabili per entrambe le parti. Il leader tagiko ha appena licenziato la ministra del Lavoro e dell’emigrazione, Širin Amonzoda, per “una politica sbagliata nella gestione dei quadri amministrativi”. Il fatto è avvenuto durante una riunione a porte chiuse del governo per fare il bilancio delle attività dell’anno passato, da cui è trapelata una netta insoddisfazione del presidente per il lavoro dei suoi sottoposti.

Rakhmon si è scagliato anche contro il capo delle comunicazioni e suo stesso cognato, Beg Sabur, per non aver saputo gestire l’ammodernamento della rete internet del Paese, soprattutto nelle “regioni isolate e di confine”, dove serve un più intenso scambio di informazioni, anche proprio per prevenire le possibili azioni di disturbo da parte di avversari come i kirghisi. Altro obiettivo della furia presidenziale è stato il presidente del Comitato per gli investimenti e le proprietà dello Stato, Sadi Kodirzod, incapace di attirare importanti interventi economici dall’estero.

Nel complesso, il satrapo del Tagikistan, che presiede anche all’amministrazione religiosa dell’islam locale, non mostra di essere propenso a trovare soluzioni amichevoli né in politica interna né nelle relazioni esterne.

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