15/04/2004, 00.00
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Vittoria per Israele, trionfo per Sharon, fallimento per i palestinesi

I dialoghi fra Bush e Sharon creano una situazione nuova, con enormi conseguenze per Israele, Palestina, e per la Chiesa cattolica. Un'analisi lucida e completa da parte di un esperto israeliano (che ha chiesto l'anonimato).

Gerusalemme (AsiaNews) – Lo scambio di dichiarazioni e lettere, avvenuto ieri 14 aprile, tra il presidente americano Bush e il Primo Ministro israeliano Sharon rappresenta una definitiva vittoria politica di Israele nel suo conflitto con i palestinesi. Esso crea un profondo cambiamento nel quadro politico dell'area e segna un trionfo personale di Sharon.

In sostanza, la vittoria di Israele consiste nella determinazione del presidente americano a che:

Israele non venga obbligato a ritirarsi dai territori palestinesi occupati ai confini pre-1967;

Che la grande maggioranza degli insediamenti israeliani nei territori occupati -  ora definiti dagli Stati Uniti "centri a popolazione israeliana -  siano annessi a Israele in un eventuale trattato di pace con i palestinesi, e che comunque essi rimangano parte di un'estensione del territorio di Israele.

Tutto questo non solo è un esplicito ritiro dalle posizioni USA fin dal 1967, ma anche  qualcosa difficilmente in sintonia con le leggi internazionali. La Carta delle Nazioni Unite non ammette l'acquisizione di territori con la forza mediante una guerra e la Quarta Convenzione di Ginevra (1949) vieta alle forze occupanti la colonizzazione dei territori occupati. Una serie innumerevole di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, successive alla guerra arabo-israeliana del 1967, dichiarano in modo esplicito come "illegali" gli insediamenti israeliani. A suo tempo gli Stati Uniti avevano accettato quelle decisioni. Negli anni seguenti, la retorica di diversi governi americani ha evitato di definire chiaramente come "illegali" quegli insediamenti, ma ha comunque insistito nel definirli "un ostacolo alla pace". Ora sono diventati dei "centri a popolazione israeliana" e sono quindi completamente legittimati – dagli Stati Uniti, non dalle leggi internazionali o dall'Onu.

In questo modo si è realizzato con successo un altro passo del piano globale di Sharon per "risolvere" il conflitto in modo unilaterale, cioè ritirarsi dagli insediamenti minori, eliminando una presenza militare stabile nelle aree palestinesi più popolose, e tenere per Israele il resto dei territori occupati, rinchiudendo le città palestinesi più abitate con muri, reticolati e barriere di sicurezza come scudo di protezione verso azioni armate palestinesi contro gli israeliani.

L'annunciato ritiro dagli insediamenti e la cancellazione di una stabile presenza militare israeliana nella regione di Gaza ne sono un esempio. Tali gesti non sono precisamente  la fine dell'occupazione belligerante di Israele: Israele manterrà il controllo completo su tutti i passaggi di confine, perfino quello tra Gaza e l'Egitto, sullo spazio aereo e marino. Ciò significa che la Striscia di Gaza (come si è soliti chiamarla) potrà essere definita – come già fanno osservatori lontani dale posizioni israeliane - come "un grande, affollatissimo campo di prigionia".

La maggior parte degli israeliani sembrano felici per il trionfo di Sharon a Washington. Shimon Peres, leader del principale partito d'opposizione, ha detto che i piani resi noti a Washington concordano "quasi perfettamente" con le posizioni del Labour Party ed è evidente che quanto prima il Labour dovrebbe entrare a far parte del governo, soprattutto se i partiti dell'estrema destra decidessero di abbandonare la coalizione di governo.

Solo "l'estrema sinistra" e "l'estrema destra" si oppongono in Israele al piano di Sharon. La cosiddetta "estrema sinistra" continua a richiedere negoziati e un accordo con i palestinesi anche adesso, mentre "l'estrema destra" (sia le forze laiche che quelle religiose) si oppongono ad ogni sorta di ritirata da qualunque zona dei territori occupati, non importa quali possano essere i vantaggi politici internazionali.

I palestinesi sono, naturalmente, furiosi. In termini politici, la loro sconfitta è seria almeno quanto quella militare nella prima guerra arabo-israeliana del 1947-49. Visto lo stato di super-potenza degli Stati Uniti, la provata impotenza delle Nazioni Unite di fronte alla risolutezza americana, e l'inerzia e le divisioni dell'Unione Europea, il parere espresso dal presidente Bush può essere considerato, a tutti gli effetti, come l'ultima parola sull'argomento. Naturalmente, osservatori distanti dalle vedute palestinesi, diranno che loro e solo loro, i Palestinesi, sono da biasimare.

L'atteggiamento non cooperante di Arafat a Camp David, nel 2000, anche riguardo alla successiva iniziativa del presidente Clinton; ancor più, la lunga serie di atti terroristici palestinesi a partire dal 28 settembre 2000, ai quali l'Autorità Palestinese non ha saputo porre un freno (e nei quali molti in Israele e in occidente credono che il presidente Arafat stesso e parte del suo apparato siano implicati); i ripetuti fallimenti nell'attuare necessarie e fondamentali riforme nelle strutture governative palestinesi, in particolare nei sistemi di sicurezza; la crescente "intesa" con Hamas; tutte queste cose hanno esasperato all'estremo i rapporti non solo degli israeliani, ma anche di molti altri Paesi occidentali, e sicuramente di molti governi arabi, con l'Autorità palestinese e la sua causa.  

Un aspetto del trionfo personale di Sharon è che questa grande svolta degli Stati Uniti in politica estera è avvenuta prima ancora che lo stesso governo di Israele abbia approvato i piani di Sharon – meno ancora, aver fatto qualche cosa – cosicché questa nuova linea americana rimarrà in atto anche se alla fine, Israele decide di non ritirarsi da Gaza, nemmeno col ritiro parziale proposto da Sharon. In effetti, il 2 maggio Sharon dovrà fare i conti con un referendum tra i membri del suo partito Likud e solo se vince (contro la mobilitazione generale decretata dall'estrema destra del partito) potrà portare la sua proposta davanti al Parlamento.

Intanto egli aspetta la decisione del Procuratore Generale, che rischia di metterlo in stato di acusa per corruzione. E anche se ora non viene incriminato, vi sono ulteriori indagini che rischiano di accusarlo. Se viene incriminato, Sharon sarà obbligato a dimettersi.   

 

USA: protettori della Chiesa?

 

É ancora troppo presto per valutare tutti gli effetti di questo "nuovo ordine" sulla presenza dei cristiani nella Terrasanta.

I palestinesi cristiani, che condividono il destino della stragrande maggioranza palestinese musulmana, non mieteranno alcun beneficio dalla nuova situazione. In effetti, lo scomparire della speranza politica dall'orizzonte, con ogni probabilità porterà ad un aumento dell'anarchia e dell'illegalità nei territori palestinesi – compreso Betlemme – e ad un rafforzamento del potere di Hamas e dell'estremismo islamico. Eliminare la speranza politica alla maggioranza musulmana palestinese può significare il consegnarla nelle mani degli islamismi, i quali non sono interessati alla speranza politica, ma solo a un certo tipo di terribile "consumazione escatologica".

In Israele, la vittoria della destra nazionalista di Sharon, e la cooptazione dei moderati e del centro-sinistra, come anche la rinnovata dipendenza dai fondamentalisti religiosi in parlamento (se l'estrema destra rifiuta di sostenere Sharon) non potrà incoraggiare sviluppi pluralisti, con spazi adeguati alle minoranze, compresi i cristiani. La "mentalità dell'assedio", simboleggiata dalla decisione di circondare Israele con mura, reticolati, barriere, può avere conseguenze molto più profonde del semplice fermare i terroristi. Israele si sta sedendo fisicamente, ma anche forse socialmente e culturalmente.

In termini immediati, la perdita definitiva di una speranza politica realistica per una pace genuina, basata sul negoziato e sulla riconciliazione, rischia di accelerare il flusso di emigrazione dei palestinesi cristiani, ansiosi di dare alle loro famiglie una vita migliore, una vita più sicura e piena di speranza, più di quanto sia possibile avere sotto la duplice pressione dell'occupazione israeliana e del dominio islamista.

A parte ciò, non si sa se la Chiesa subirà altre conseguenze. È probabile che essa avrà difficoltà maggiori nel trasferire il personale di qua e di là dei confini fra Israele e territori palestinesi. Tutto questo accade già ora. In più, la speranza della Chiesa  di garantire i suoi diritti e la libertà (in Israele e nei territori controllati da Israele) attraverso accordi pubblici e bilaterali con lo stato di Israele, può essere messo in crisi dal nuovo "unilateralismo". Del resto, il governo israeliano ha già praticato tale "unilateralismo", ritirandosi autonomamente dai dialoghi con la Santa Sede, decidendo in modo autonomo sulla "crisi dei visti ai religiosi", eccetera.

La crescente tendenza nei circoli cristiani di invocare l'intercessione USA verso Israele riflette forse questo presentimento. In ogni caso, data la potenziale influenza del voto cattolico e la presenza prominente dei cattolici nella vita della nazione, la Chiesa potrebbe avere una ragionevole aspettativa per un sostegno da parte degli USA. Per secoli la Chiesa di Terra Santa è stata protetta dalla Francia; forse ora la nuova "nazione protettrice" dovrà essere gli Stati Uniti.

 

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