16/10/2018, 11.24
IRAQ-VATICANO
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Simposio di AsiaNews 2018: P. Paolo Thabet Mekko, ricostruire coi giovani la Piana di Ninive

di Paolo Thabet Mekko

La testimonianza di un sacerdote caldeo, il primo a ritornare nella Piana di Ninive, dopo la sconfitta e la cacciata dello Stato islamico. L’esperienza fra i profughi di Mosul rifugiati nel Kurdistan e bisognosi di tutto. Il ritorno nella Piana, dove si ricostruiscono chiese, case, negozi e si mettono le basi della convivenza fra cristiani e musulmani per un nuovo Iraq.

Roma (AsiaNews) – Al Simposio di AsiaNews 2018, “Giovani che resistono”, p. Paolo Thabet Mekko ha offerto la sua testimonianza. Il sacerdote, il primo a ritornare nella Piana di Ninive, dopo la sconfitta e la cacciata dello Stato islamico, è stato un importante punto di riferimento per le decine di migliaia di profughi cristiani, fuggiti nel Kurdistan nel 2014 e ora è fra i protagonisti della rinascita della Piana di Ninive, dove si ricostruiscono chiese, case, negozi e si mettono le basi della convivenza fra cristiani e musulmani per un nuovo Iraq.

Parlare dei giovani iracheni è una cosa complessa perché la situazione difficile in cui essi vivono getta un’ombra sempre più buia sulla gioventù.

La situazione dei giovani in Iraq non è buona: la libertà è quasi negata; parlare e criticare i religiosi radicali di oggi, che controllano la vita in Iraq è quasi impossibile. Chi critica ed è una persona attiva rischia di essere ucciso in segreto o escluso dalla vita sociale.

In generale, i giovani più sensibili e più disponibili ad accettare i cambiamenti sociali e politici, oggi sono anche i più soffocati. È ancora peggio per i giovani cristiani, perché, da una parte, il cristiano viene considerato una minoranza; i suoi diritti non sono presi in considerazione. Tanto più che il Paese oggi si dirige verso una distribuzione (della ricchezza, del territorio, …) basata sulla confessione etnico-religiosa: chi non fa parte dei grandi gruppi, non può dire nulla, le possibilità di avere lavoro nel governo diminuiscono, subendo oppressioni psicologiche.

L’evento più grande che ha segnato i giovani cristiani e tanti non cristiani è stata la fuga nel 2014 a causa dell’Isis. Una parte dei problemi giovanili di oggi dipendono da quanto è successo con lo Stato islamico: minacce di morte, perdita della terra e della convivenza sociale; tanti valori e progetti messi in pericolo: lavoro, studi, scuola.

L'animo dei giovani cristiani è turbato da pensieri che diventano sempre più comuni: il futuro va cercato fuori dell'Iraq; se si resta, il meglio è essere pagati dal governo per un lavoro stabile; impegnarsi nella vita sociale e politica non giova a nulla; è scomparsa la fiducia nella società che ha accolto l’Isis - o meglio è stata occupata da loro. Questi pensieri bloccano la vita dei giovani e instillano in essi una natura passiva che aumenta i problemi e la preoccupazione. 

Fra i rifugiati ad Erbil

Quanto la Chiesa ha fatto per i giovani non era cosa facile: trovare un tetto, del cibo e quanto è essenziale per far respirare la vita. Non era facile provvedere al cibo e al vestiario di centinaia di migliaia di persone, pur avendo loro al primo posto nella carità.

Ma tutto ciò non era sufficiente per proteggere la loro dignità e la vita della gioventù.

Per resistere, l’acqua deve correre nella sua direzione normale. Così la nostra Chiesa ha lavorato preparando scuole, trovare posti per continuare l’università, offrire posti all’università statale, quando la gente è fuggita dalla Piana di Ninive e si è rifugiata nel Kurdistan.

Ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil abbiamo fatto il nostro centro di distribuzione; la diocesi di Kirkuk per tre anni ha dato alloggio, cibo, ecc.  per 400 studenti, anche non cristiani.

Tutte queste attività sono state come un’ancora che ha reso stabile questa comunità: non abbiamo lasciato che fosse trascinata dal vento della grande crisi. Così, nel tempo della fuga, abbiamo preparato gli animi ad affrontare la seconda tappa: il ritorno dopo la liberazione della Piana di Ninive.

Solo una nota: [a Erbil] dirigevo un centro profughi che si prendeva cura di 145 famiglie in tanti piccoli appartamenti e offriva tutto il necessario a 1200 famiglie caldee della diocesi di Mosul. Stare con loro in tutto e per tutto ha dato loro coraggio e fiducia nel poggiare la loro speranza sulla Chiesa.

Il ritorno

La seconda tappa è stata il grande del ritorno nella Piana di Ninive e nella città di Mosul dopo la liberazione dall’Isis. Sono riuscito ad arrivare con le prime truppe irachene nella zona e subito ho piantato una croce sulla collina. Poi abbiamo visto i segni di morte e di distruzione in tutta la zona: il paese era tutto bruciato; niente era rimasto e l’odore di morte era dappertutto.

Quando la gente ha potuto iniziare a visitare le loro case, cercavano tra le ceneri qualche ricordo o documento lasciato a casa il giorno della fuga. Questo gesto conteneva un messaggio: il ritorno è impossibile; l’unica cosa che possiamo fare è lasciare qui lacrime e dolore e basta; conviene fuggire lontano da questa scena perché tutto è andato via con il vento.

La domanda sulla rinascita di questa zona non trovava una risposta anzi, la disperazione non faceva brillare nemmeno la domanda.  Invece, la fede dava il coraggio di resistere e cercare un punto luminoso che brillasse in questo buio.

Ed è questo: dai primi giorni ho costituito un movimento con dei giovani e siamo andati al nostro Paese per pulire il santuario di santa Barbara, che è simbolo del mio villaggio. Questa chiesa era quasi sepolta per la terra scavata dall’Isis che voleva costruire tunnel di guerra. Ogni passo in più nel lavoro aumentava l'entusiasmo e la speranza.

Ma occorreva convincere la gente a ritornare, a iniziare di nuovo, riportando alla memoria la loro missione, il loro passato, la loro identità che dava senso alla loro terra. Occorreva anche mettere in atto un piano pratico per orientarsi verso il ritorno. Confesso che non è stato facile e non lo è ancora. Ogni volta che volevamo partire venivamo bloccati perché lo zona era considerata una zona militare e andare da Erbil fino a lì, si rimaneva bloccati; i materiali e ciò che serve per il lavoro, acqua e elettricità non c’erano. Il ritorno sembrava impossibile. In più, girava la voce che non avremmo mai potuto ricostruire la zona, che serviva una forza internazionale e grandi compagnie, che non c’erano. E allora si concludeva che il piano non inizierà mai, o per completarlo ci vogliono almeno 5- 10 anni.

Se avessimo accettato questo pensiero, tutti sarebbero andati via dall’Iraq e non sarebbero mai tornati. Nel frattempo, infatti, alcuni sono partiti per l’estero cercando altri Paesi dove ricominciare a lavorare.

Ciò che ha fatto svanire questi pensieri è stato il comprendere che occorreva fare quanto è possibile. Così, il nostro piano è partito con la benedizione del patriarca Sako, con aiuto del NRC un comitato per la ricostruzione della Piana di Ninive e qualche aiuto privato di cristiani abbiamo cominciato. Un grande aiuto è arrivato dai cavalieri di Colombo – Usa e anche da AsiaNews con “Adotta un cristiano di Mosul”. Avevamo bisogno di essere incoraggiati da chi vuole aiutarci e allo stesso tempo, dovevamo noi dare a loro il coraggio per aiutare, che significa: mostrare la voglia e l'insistenza per ritornare e far nascere questa zona di nuovo.

È stato importante sacrificare la paura, la pigrizia e credere con forza che non abbiamo altra scelta al di fuori di questa. Per molta gente tutto rimaneva difficile, ma molta altra ha iniziato a capire che era conveniente ritornare.

Oggi il lavoro è cominciato da un anno e più e vi sono stati tanti cambiamenti.  Un buon numero di cristiani è ritornato, circa il 45 per cento. Questo numero non è elevato, ma secondo la mia esperienza, e conoscendo la psicologia dei profughi, è un enorme successo. Questo fatto da una parte dà coraggio ad altri di muoversi, e perlomeno li fa pensare in modo diverso, senza scoraggiamenti.

Ricostruire puntando sui giovani

Oltre al lavoro principale di ricostruzione e la pastorale normale, noi sacerdoti stiamo cercando altre attività pastorali, soprattutto quelle per i giovani, e proponendo impegni sociali per non farli cadere nella noia o nel disagio, a causa della situazione dura.

In questo momento stiamo cercando di rifare il centro culturale danneggiato dall’Isis, per iniziare nuovi progetti pastorali. Come Chiesa cerchiamo di rispondere ai bisogni vari dei giovani: aiutare in qualsiasi modo gli studenti universitari, preparare qualche centro sportivo che serva per un’attività giovanile che vada oltre le confessioni religiose. Per esempio abbiamo organizzato partite di calcio tra villaggi cristiani e musulmani nella Piana. 

Occorre trovare mezzi per convincere i giovani a restare, soprattutto rafforzando le relazioni con i non cristiani. Personalmente ho usato tante occasioni per il dialogo: partecipare con imam musulmani moderati nelle attività dei giovani a Mosul; orientare i giovani al bene comune e a guardare in avanti senza pregiudizi; lavorare insieme nella ricostruzione e aiutare le famiglie cristiane e musulmane. Alle feste parrocchiali partecipano anche i giovani musulmani. Le basi per poter vivere con gli altri ci sono o almeno stiamo lavorando per metterle.

Un altro punto importante è trovare lavoro per i giovani, adesso stiamo studiando ciò che è utile per iniziare qualche piccolo business, o progetti di agricoltura: in qualche terreno che la Chiesa aveva, stiamo scavando dei pozzi d'acqua e prepariamo i giovani a coltivarli.

Cerchiamo anche di attirare l'attenzione del governo verso i giovani cristiani per impiegarli come membri nei corpi della sicurezza, incoraggiando i giovani a partecipare, a diventare militari, membri della polizia locale, per essere più impegnati nella società.    

Malgrado la grande crisi, la fede dei giovani è viva. Nella fuga abbiamo continuato a vivere con loro nelle tende, nei containers, in posti inadeguati, facendo incontri pastorali e spirituali.

Non possiamo però negare tanti limiti e pericoli che si stanno creando.

Tanta gente è emigrata nei Paesi vicini. Essi sono nei campi profughi da anni, con i figli senza scuola, nell’insicurezza. In tal modo, la decisione di rispondere alla vocazione è rimandata o non è affrontata. Perciò vi è una perdita di tempo, del carisma vocazionale, e l'economia e i pensieri detti sopra sono un fattore negativo che fa ritardare la decisione di rispondere alla vocazione matrimoniale o alla vita consacrata.   Ma ci sono anche esempi illuminanti: alcuni giovani hanno costituito delle famiglie anche nella grave situazione della fuga; vi sono state ordinazioni sacerdotali, nuovi seminaristi. Esistono anche gruppi di carità, corsi di teologia, festival spirituali, attività giovanili. Tutti questi sono punti illuminanti che sostengono la luce della speranza.

Quanto detto è solo una piccola descrizione: la realtà sia negativa, sia positiva rimane più grande e profonda. In ogni caso essa è il punto di partenza per la missione della Chiesa.

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