02/07/2010, 00.00
LIBANO
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Il Libano si divide sui “diritti umanitari e sociali” dei palestinesi

di Fady Noun
A suscitare contrasti questioni confessionali e politiche. A chi vorebbe ai rifugiati il diritto di divenire proprietari di un alloggio, l’abolizione del permesso di lavoro e il diritto di godere delle prestazioni della sicurezza sociale, si oppone chi vi vede una strada per il loro “radicamento”, che violerebbe il diritto al ritorno e farebbe il gioco di Israele.
Beirut (AsiaNews) – La questione dei diritti umanitari e sociali di più di 300mila palestinesi è di nuovo all’ordine del giorno in Libano, ma, come sempre, divide profondamente i libanesi. In effetti, la proposta di legge presentata recentemente in parlamento dal leader druso Walid Joumblatt ha diviso la classe politica, seguendo una linea di frattura confessionale.
 
La proposta di legge in questione riguarda il diritto dei palestinesi di divenire proprietari di un alloggio, l’abolizione del permesso di lavoro e il diritto di godere delle prestazioni della sicurezza sociale.
 
Voci musulmane di sono levate per approvare le proposte, mentre i partiti espressione della popolazione libanese cristiana, Kataeb e Forze libanesi da una parte, Corrente patriottica libera dall’altra – peraltro schierate su fronti opposti – si sono trovati d’accordo per respingerle, tanto più che erano state presentate “col carattere di doppia urgenza”.
 
La deriva confessionale, apparsa in un primo momento, ha ceduto posto, qualche giorno più tardi, a un dibattito più politico. La Corrente del futuro del primo ministro Saad Hariri, in effetti, ha lanciato un appello a una discussione razionale su questa questione incandescente e preso le distanza da tutti gli altri.
 
A rendere incandescente la questione, è il fatto che la presenza dei palestinesi armati è stata uno dei principali detonatori della guerra civile (1975-1990) e che questa profonda ferita ancora sanguina, ogni volta che si torna a parlare dei palestinesi, in quanto entità, in Libano.
 
I palestinesi, in effetti, continuano a conservare le loro armi, all’interno dei campi nei quali si trovano e in alcune basi situate in territorio libanese, in particolare a sud di Beirut. Armamenti che si rifiutano di smantellare, anche se su tale tema esiste un consenso tra I libanesi.
 
Nella questione, il carattere etico delle armi si contrappone alla ragion di Stato. Le condizioni di vita, nei campi palestinesi, sono certamente inaccettabili. Ciò malgrado, la proporzione dei rifugiati palestinesi residenti in Libano, in rapporto alla popolazione locale, è la più alta di tutto il mondo arabo ed ogni discussione sullo status sociale e umanitario dei palestinesi rivesta una dimensione a un tempo esistenziale, identitaria, economica e politica. Un radicamento dei palestinesi in Libano contribuirebbe, in particolare, a una grave rottura dell’equilibrio islamo-cristiano sul quale poggia il Paese. Così, ogni volta che si apre il dibattito, si manifesta di nuovo il timore di un “radicamento” dei palestinesi in Libano, fermo restando che la Costituzione respinge, nero su bianco, ogni ipotesi di radicamento.
 
Sulla questione regna la confusione, a livelli diversi, sia tra I libanesi che tra I palestinesi. Alcuni gruppi di questi ultimi, in particolare quelli che sono vicini a Hamas, parlano di “diritti civili” e reclamano, in particolare, il diritto per un Palestinese, di essere proprietario di una casa.
 
All’apparenza elementare, questo diritto pone in realtà un problema enorme. I palestinesi non possono avere diritti civili in un Paese del quale non hanno la nazionalità, afferma, in sostanze, il ministro del lavoro, Boutros Harb. A suo parere, “parlare di diritti civili è un errore, nella misura in cui questo termine rinvia alla nozione politica di cittadinanza, che è un diritto esclusivo dei libanesi”. E’ dunque preferibile, a suo avviso, parlare di “diritti umanitari e sociali”, termini che non suscitano equivoci.
 
Quanto al diritto di proprietà, Harb ritiene che “il diritto all’affitto assicura ai palestinesi lo stesso servizio sociale del diritto di essere proprietari di un alloggio e al tempo stesso li protegge dalla tentazione di assimilarsi alla società nella quale risiedono a titolo provvisorio e di dimenticare o rinunciare alla loro nazionalità”.
 
In tal modo, le autorità libanesi non fanno altro che rispettare il “diritto al ritorno” dei palestinesi, riconosciuto dall’Onu e che la tentazione dell’assimilazione abolirebbe, puremente e semplicemente. D’altro canto, è proprio su questa “usura” del tempo che conta lo Stato israeliano, per risolvere questo aspetto del problema palestinese. Per Israele, infatti, non si parla proprio di accordare ai palestinesi un qualsiasi diritto al ritorno dei palestinesi in territorio israeliano.
 
A giudizio del capo del partito Kataeb, l’ex capo di Stato Amin Gemayel, il diritto di proprietà è “un passo verso il radicamento”, nella misura in cui, sommato all’ottenimento ulteriore di una nazionalità palestinese, esso trasformerebbe la nozione “rifugiato” palestinese, in “residente” e il “residente” in “residente permanente", che potrebbe chiedere la nazionalità libanese.
 
Per quanto poi riguarda il diritto al lavoro, Harb ha voluto sottolineare che un decreto che ha il numero 1/10, che egli stesso ha firmato il 3 febbraio scorso, accorda ai palestinesi il diritto di esercitare 70 mestieri, mentre per l’esercizio delle professioni liberali, essi debbono avere l’accordo preventivo degli ordini professionali.
 
Lavorare senza aver bisogno di un permesso, secondo il ministro del lavoro, presenta, per i palestinesi, lo stesso rischio del diritto di proprietà, quello dell’assimilazione. Peraltro, a suo avviso, il permesso di lavoro protegge i palestinesi, obbligando il datore di lavoro a offrire un contratto, a iscriverlo alla Cassa nazionale di sicurezza sociale e a stipulare a suo nome una polizza di assicurazione sanitaria e una copertura contro gli incidenti sul lavoro. Abolire il permesso di lavoro gli farebbe più male che bene.
 
Per ciò, infine, che riguarda il diritto di beneficiare delle prestazioni della Sicureza sociale, Harb afferma che con ciò si avrebbe “il torto di esonerare la comunità internazionale dalle sue responsablità verso la causa dei rifugiati palestinesi, che l’Onu ha contribuito a creare, per cui deve continuare ad assumersi le spese della loro salute e della loro scolarizzazione”.
 
A suo giudizio, “Israele e una parte della comunità internazionale tentano di giocare la carta del disimpegno delle organizzazioni internazionali, nella deliberata volontà di incoraggiare il loro radicamento nei Paesi di accoglienza”, ciò che porterebbe, nel lessico politico arabo, a “un tradimento” della causa palestinese. Senza arrivare a dire che Joumblatt fa il loro gioco, Harb ritiene che il capo del PSP “non ha studiato abbastanza il dossier” e che eventualmente “si renderà conto del suo errore”.
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