07/02/2014, 00.00
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L'economia mondiale a una svolta. Forse a un crollo

di Maurizio d'Orlando
Gli aiuti della Fed al mercato Usa hanno permesso il salvataggio dei mercati finanziari. La loro riduzione sta creando scossoni monetari in Argentina, Turchia, Venezuela, Thailandia, Ucraina, Sud Africa, Cile, Indonesia, India, Brasile, Taiwan, Malaysia e molti altri Paesi ancora. E' il fallimento dello Stato come motore dell'economia; è il fallimento delle distorsioni politiche di Cina e Usa, ma non solo.

Milano (AsiaNews) - Siamo alla vigilia di una nuova svolta. L'affievolimento (tapering) della QE, la "quantitative easing", vale a dire l'accomodamento quantitativo nell'emissione monetaria, sta infatti mettendo in moto una serie di meccanismi che ci porteranno ad un nuovo più grave collasso.

Il triennio 2007 - 2009, iniziato con la crisi del mercato immobiliare, proseguito con il collasso finanziario dei mutui non primari e dei contratti derivati, sfociato infine nei salvataggi bancari a carico delle finanze statali per il tramite delle banche centrali, ha avuto il suo momento cruciale con il fallimento della Lehman, nel settembre 2008.

Sebbene gli organi di comunicazione istituzionali, la stampa e la televisione a grande diffusione, vogliano convincere del contrario, dalla crisi di quel triennio il mondo in realtà non ne è ancora uscito. Certo, le magie dell'emissione monetaria senza limiti da parte delle banche centrali di tutto il mondo di sicuro hanno prodotto un effetto: un prodigioso recupero delle quotazioni dei valori dei titoli finanziari di borsa, azioni ed obbligazioni. Le voci un po' alternative dicono che si tratta di un'illusione, anzi di un inganno e di una frode, come è evidente dalle manipolazioni dei tassi d'interesse sul LIBOR e delle quotazioni dell'oro. E in effetti, non è solo un'illusione, ma qualcosa di peggio: un regalo avvelenato, dolce in superficie e mortale nel profondo. 

Emettere moneta per salvare i mercati finanziari

I segnali della svolta vengono da un certo numero di Paesi emergenti: Argentina, Turchia, Venezuela, Thailandia, Ucraina, ma anche Sud Africa, Cile, Indonesia, India, Brasile, Taiwan, Malaysia e molti altri ancora. La crisi è in primo luogo valutaria e tocca perfino il peso messicano, la cui economia è stata finora considerata una delle più solide tra i Paesi emergenti. E' il denaro caldo che si sposta.

Ma prima di lanciarsi nelle solite litanie contro la speculazione e l'avidità rapace di tanti finanzieri, anche piccoli, è meglio ragionare per evitare di sbagliare clamorosamente il bersaglio, come accade spesso ai moralisti d'accatto. La speculazione infatti non è sempre e solo frode e macchinazione. Spesso, anzi, non è che la reazione ed il riflesso, quasi meccanico, di problematiche reali che stanno a monte. Cerchiamo, dunque, di fare un po' di chiarezza perché la caccia alle streghe accende l'odio, ma non serve a niente, anzi acceca e rende tutto più difficile.  

La banca centrale americana - un assurdo costituzionale, dato che la Costituzione Usa espressamente la vieta - ha ridotto appena un po' l'immissione di nuova moneta, riducendo l'acquisto di buoni del Tesoro americano, e subito sono emersi i primi sintomi di "debolezza" nei Paesi emergenti. L'enorme liquidità finanziaria a fronte del nulla emessa in questi anni dalle banche centrali ha rigonfiato ad arte i mercati finanziari, riportando le quotazioni ai livelli precedenti il momento "Lehman". Questo era il vero obbiettivo della QE di Bernanke, il mandato affidatogli dai suoi soci, le grandi corporazioni bancarie e finanziarie che l'avevano posto sullo scranno più alto della Fed. Dopo aver cavalcato alla grande la bolla montata da Alan Greenspan, il predecessore di Bernanke, dei mutui concessi anche a chi non avrebbe mai potuto ripagarli, la confraternita bancaria ha preteso ed ottenuto di essere salvata, ovviamente a spese dei bilanci statali il cui deficit è esploso ed al costo di gonfiare di cespiti patrimoniali a dir poco dubbi le banche centrali che emettono moneta. In pratica il risultato sociale è che il governo Obama, ideologicamente di sinistra accesa, con le sue politiche di stimolo della spesa pubblica ha prodotto un forte aumento delle diseguaglianze economiche. Sembra un paradosso, ma è non lo è perché solo una piccola percentuale della popolazione detiene il proprio patrimonio in titoli quotati sui mercati finanziari.

Al di fuori del settore finanziario è però tutta un'altra storia. A più di cinque anni dal momento "Lehman" l'economia reale è infatti ancora boccheggiante non solo in Europa ma anche in America, dove la ripresa di fatto non c'è o al massimo è infinitesimale. Lo stesso vale per il Giappone, dove pure è stato tentato da Abe l'esperimento della terapia "nucleare" fatta da spesa pubblica ad oltranza e di deficit a quasi il 12 % del Pil, anche quando il debito pubblico ha raggiunto lo stellare livello del 240 % del Pil. E vale anche per la Cina che, in concomitanza con gli USA e a partire dal 2009, ha anch'essa attuato il suo cospicuo pacchetto di stimolo keynesiano alla spesa pubblica. Ovviamente il caso cinese è differente perché il Paese continua a beneficiare di un "aiutino" ormai ventennale, il traino delle esportazioni che si impongono nel mondo grazie ad una valuta caparbiamente mantenuta sottocosto del 45 % rispetto alla parità del potere di acquisto. La terra trema però anche in Cina. Con la bomba della "finanza ombra", con l'opprimente peso della sovraccapacità produttiva inutilizzata e con la bolla immobiliare costituita da intere città fantasma, disabitate perché costruite nel deserto - spesso non solo metaforico - e troppo care per ospitare delle comuni famiglie, il momento "Lehman" si sta avvicinando anche per la Cina.

La fine del sogno neo-keynesiano

A fronte degli scarsi risultati per l'economia reale si sarebbe forse dovuto intervenire con maggior "coraggio" - leggi: criminale incoscienza - con la leva keynesiana dello stimolo fiscale e della spesa pubblica ? Inizialmente due intemerati keynesiani, i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, proprio questo hanno seraficamente affermato. Tuttavia i mezzi finanziari messi in campo in questo quinquennio sono stati enormi e letteralmente senza precedenti. Tranne forse per qualcuno che non sa nemmeno quel che dice, a scagliare anatemi contro l'austerità non c'è più nessuno, nemmeno gli intrepidi ultra-keynesiani. Al di fuori forse dell'Irlanda, è infatti difficile dire dove questa fantomatica austerità sia stata davvero attuata in questi anni.  Al più si è visto solo qualche granello di semplice buon senso nella revisione della spesa pubblica. Diversa cosa è il rigore finanziario che avrebbe dovuto essere attuato decenni fa, senza far credere alla gente che le monete d'oro crescano da sole sugli alberi, come nel paese dei Balocchi di Pinocchio.

La "stretta" monetaria che la Fed ha appena iniziato ad attuare, è solo una pausa nella corsa finora senza freni dell'emissione monetaria. È però anche un'indiretta ammissione: raggiunto l'obbiettivo di ristabilire le quotazioni di borsa ed in generale dei mercati finanziari occidentali, la Fed a questo punto non sa in realtà che pesci pigliare per far ripartire sul serio l'economia reale. Da questo quinquennio si è potuto almeno trarre un insegnamento: se si parte da elevati livelli di spesa pubblica e di indebitamento pregresso, le manovre di stimolo keynesiano, anche quando se ne somministrino dosi da cavallo, risultano inefficaci. Pochi se ne sono accorti ed ancora meno ne hanno dibattuto, ma è una disfatta ideologica di notevole grandezza: è il fallimento della soluzione fatta di aumento a dismisura della spesa pubblica; è il naufragio della ricetta keynesiana, di "sinistra", la sinistra moderna non più marxista, ma pur sempre una forma radicale di statalismo dirigista.

Nel 1991, con il crollo dell'URSS, è fallito il modello economico del comunismo. Nel 2008, con il momento "Lehman", è fallito non il liberismo (come qualche tardo comunista ha erroneamente detto) ma il "mercatismo" , l'ideologia della scuola di Chicago e della "Quantitative Economics" (economia politica quantitativa), l'idolatria cioè delle aspettative razionali,  l'esaltazione iper-razionalista del mercato, in particolare quello finanziario e regolamentato, inteso come espressione suprema e perfetta, sintesi dei comportamenti umani ritenuti possibili da descrivere mediante una serie di complicati algoritmi meccanicistici.

Il 2013 marca invece il fallimento del socialismo finanziario neo-keynesiano. Oggi, con l'inizio del "tapering" (affievolimento, cioè graduale riduzione) abbiamo, finalmente, la presa d'atto da parte della Fed del fallimento dell'ideologia deutero-keynesiana in tutte le sue attuali varianti: l'Obama-Krugman pensiero, la "Abenomica" del Sol Levante, la "Sozialmarktwirtschaft" renano-germanica (tanto cara a Mario Monti, a Mario Draghi ed a tutta l'eurocrazia) ed infine il capital-comunismo cinese in salsa confuciana. La Fed ha dunque deciso una pausa "graduale", anche perché Bernanke e soci tutto potranno essere, ma non sono scemi. Sanno bene che, se continuano a far girare le rotative dell'emissione monetaria, l'iperinflazione di Weimar è appena dietro l'angolo.

Paesi che consumano e Paesi che producono

Questa pausa di riflessione (per mancanza di idee) decisa dalla Fed finisce però per portare a galla i problemi intrinsechi dei Paesi emergenti di cui si è detto all'inizio. Finora, in qualche modo, questi Paesi avevano tratto un beneficio reale dalla squilibrata globalizzazione degli ultimi 20 anni. Per lo più tale manna proveniva dal traino delle esportazioni di minerali e derrate agricole, in certi casi da quella di manufatti industriali di largo consumo. Il meccanismo è stato grosso modo il seguente: i Paesi "sviluppati", cioè di antica industrializzazione, sono andati de-industrializzandosi con la cosiddetta de-localizzazione e la perdita di posti di lavoro soprattutto per le "tute blu", il lavoro operaio. Ad esempio, oggi negli Usa il settore manifatturiero industriale costituisce appena il 12% del Pil. A titolo di paragone, negli anni '50 era ancora attorno a un po' meno del 30 %. Anche molti lavori nei servizi professionali, non solo ma principalmente legati al manifatturiero, hanno finito per trasmigrare in alcuni Paesi emergenti.

A venire de-localizzati sono stati infatti anche tutti quei servizi che possono facilmente rientrare nell'interscambio estero: il software, le tecnologie informatiche (IT), ma anche la ricerca e sviluppo ed il disegno industriale, per finire con i servizi di centralino. A rimanere nei Paesi "sviluppati" sono stati solo quei servizi strettamente legati al territorio, come la ristorazione, i servizi alla persona ed in generale tutti i servizi maggiormente legati ai consumi. Si è così prodotta una situazione incongruente ed insostenibile nel lungo termine. Da una parte c'è un'area di consumo, con deficit strutturali e cronici nell'interscambio delle merci;  dall'altra un nucleo di Paesi in cui si concentra la produzione. Negli Usa circa il 70 % del Pil è dato dai consumi. In Cina si concentra in molti settori industriali rilevanti la metà - e a volte anche di più - della produzione mondiale. L'importante però è sottolineare che questa situazione non si è prodotta per un differenziale di efficienza relativa, ma per due potentissimi fattori di distorsione. Da un lato vi è un monopolio dell'emissione di strumenti di pagamento, il dollaro, come moneta sovrana americana, ma anche come strumento valutario di gran lunga prevalente nell'interscambio mondiale delle merci. Dall'altro lato, come si è detto, vi è il tasso di cambio cinese mantenuto sottovalutato. Le conseguenze di questo equilibrio artificiale, che in realtà è uno squilibrio, sono in primo luogo che lo stato attuale delle cose non è basato su una solidità intrinseca, ma si può mantenere fintanto che esiste un accordo politico a sostegno di questa struttura dell'interscambio.

Politica ed efficienza tecnologica

Un secondo effetto di questo contesto di distorsione è che ovviamente anche l'attività produttiva e la crescita economica sono determinate da fattori politici e non da parametri di maggiore o minore efficienza tecnologica nell'uso delle risorse, ad esempio delle materie prime o del lavoro. Perciò, il fatto che un'impresa de-localizzata consegua maggiori utili è significativo solo per i suoi azionisti ma non è sinonimo di maggiore efficienza. L'efficienza di una linea di produzione è infatti un parametro tecnico ed un tipo di lavorazione non è più efficiente solo perché è stata de-localizzata. Anzi, a livello di macro-aggregati si può constatare  il contrario. Per quanto riguarda la Cina, ad esempio, l'incremento di un punto percentuale di Pil comporta un incremento nel consumo di energia pari a circa tre/quattro punti percentuali. Fintanto che la Cina, uno dei due maggiori fattori distorsivi, ha potuto ricorrere e può ricorrere a risorse interne - è il caso del lavoro e di una materia prima, il carbone - l'espansione economica cinese grazie alla concentrazione della produzione mondiale nel Paese, ha prodotto un forte inquinamento ma non ci sono state e non ci sono ripercussioni di rilievo sui mercati internazionali. Ben diverso è invece il caso di risorse ed in particolare materie prime estere.

In questo settore la caduta della domanda delle industrie manifatturiere dei Paesi sviluppati è stata più che compensata dall'incremento della domanda di materie prime da parte di quelli di nuova industrializzazione ed in particolare della Cina. Questo spiega sia l'avanzante ed ormai determinante presenza cinese, soprattutto in Africa, in Australia ed in altri Paesi esportatori di materie prime, sia la crescita in controtendenza dei Paesi emergenti, gli stessi di cui in questi giorni osserviamo le diverse situazioni di crisi. La ragione è che la valanga di liquidità messa in moto dalla Fed subito dopo il momento Lehman, e cioè dal 1° trimestre 2009 fino ad oggi, dopo essersi riversata sulle borse e sui mercati finanziari ed aver riportato le quotazioni ai livelli precedenti la crisi, ed anzi verso nuovi massimi, con una corsa che ha superato il 60% di rivalutazione, ha dovuto e deve fare i conti con la mancata ripresa reale delle economie occidentali. Una volta, infatti, raggiunti certi livelli delle quotazioni di borsa, il grado di rischio di un nuovo crollo è diventato elevatissimo, vista la recente lezione del 2008. Visti inoltre i bassi rendimenti finanziari determinati dai bassi tassi d'interesse, il denaro caldo si è perciò posizionato sui titoli dei Paesi emergenti, legati all'esportazione delle materie prime, facendo finta d'ignorare i rischi istituzionali e strutturali di questi Paesi.

La manovra di "tapering" della Fed significa che i tassi d'interesse per i titoli primari, quelli "senza rischio", sono destinati a salire. La conseguenza è che questo ha reso e rende non più conveniente mantenere il denaro caldo in titoli di mercati ad alto rischio e questo spiega il crollo delle valute dei Paesi emergenti esportatori di materie prime. Questo primo crollo del 2014 segnala anzitutto un altro fallimento ideologico, quello del "keynesianesimo involontario". Si tratta delle dispendiose politiche programmatiche di spesa pubblica in costante deficit, attuate sotto varie etichette. Si tratta del social-indigenismo di Chavez/Maduro in Venezuela, del social-peronismo in Argentina di Kirchener/Fernandez, del Conferimento di Potere Economico ai Neri (BEE, Black Economic Empowerment) nel Sud Africa di Nelson Mandela e così via nei differenti Paesi. In questi casi la distorsione della domanda è, diremmo, involontaria perché lo scopo non è il dirigismo economico per sé, ma viene messa in atto per alte finalità socio-politiche  di redistribuzione dei redditi dai settori nazionali - economicamente efficienti nell'interscambio internazionale - a settori protetti.  Tutte queste alte finalità politiche finiscono poi per andare a beneficio di una specifica fazione politica o gruppo d'interesse e diventano di fatto semplice parassitismo economico. Il "tapering" momentaneamente attuato dalla Fed non è dunque che la causa scatenante delle crisi valutarie e dei mercati perché questi crolli hanno tutti ragioni ed origini interne ai Paesi stessi.

Il punto è però che queste crisi dei Paesi emergenti possono scatenare una reazione a catena perché da più di mezzo secolo, dalla presidenza Kennedy agli inizi degli anni '60, il mondo gioca con l'illusione keynesiana, che la spesa pubblica possa produrre crescita economica reale, che gli Stati possano fare a meno di ciò cui invece sono tenute le famiglie e le imprese: non vivere al di sopra dei propri mezzi e non assumere debiti che non si potranno mai ripagare. Il 1959 fu infatti l'ultimo anno in cui l'amministrazione pubblica americana attuò una reale politica programmatica di pareggio di bilancio e gradatamente tutto il resto del mondo si è adeguato.

Da allora la progressione è stata sempre più veloce; in questi ultimi due decenni e poi ancor di più in quest'ultimo quinquennio, l'emissione di moneta a copertura dei buchi di bilancio ha avuto incrementi parabolici. Siamo ormai prossimi allo schianto, siamo al 1914, alla vigilia dell'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. A questo punto è però difficile dire se la scintilla scaturirà dal crollo valutario dei Paesi emergenti, dalle conseguenti difficoltà delle grandi banche americane ed europee, o se verrà dal Giappone come potrebbe sembrare in questi ultimissimi giorni, o ancora se verrà dall'implosione del sistema finanziario e bancario cinese, o ancora dal crollo dell'euro o da un collasso di Wall Street.

 

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