28/09/2010, 00.00
ISRAELE - PALESTINA
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Le attività delle colonie affrettano la fusione di Israele e Palestina in un unico Stato

di Arieh Cohen
La ripresa delle costruzioni israeliane nei territori occupati e a Gerusalemme est segnano l’impotenza di Netanyahu, la fragilità di Abou Mazen, la debolezza di Obama. Il territori strappati dalle colonie rendono impraticabile la nascita di uno Stato palestinese. Ma rendono impossibile anche l’idea di Israele come “casa per il popolo ebraico”. Il futuro è forse di uno Stato che accoglie arabi ed ebrei. Ma gli arabi saranno presto i più numerosi.
Tel Aviv (AsiaNews) – Una disperata lotta contro il tempo: così i media mondiali hanno mostrato i tentativi di Usa e Unione europea per evitare lo scioglimento dei negoziati di pace fra Israele e l’Olp inaugurati di recente. La corsa senza fiato era causata dal fatto che il 26 settembre è terminato il congelamento provvisorio e autoimposto di Israele alle costruzioni delle colonie nella West Bank.
 
I dialoghi cercavano qualche formula magica, qualche vaga “quadratura del cerchio” che poteva permettere a Israele di riprendere le costruzioni, spingendo nello stesso tempo i palestinesi a continuare i negoziati come se nulla stesse accadendo. La frenetica ricerca di una soluzione verbale a un problema reale somiglia molto alla ricerca senza fine del “Sacro Graal”, come può definirsi il problema della pace in Terrasanta: l’attenzione a trovare una “forma di parole” piuttosto che affrontare la situazione sul terreno. La corsa contro il tempo (e solo questo, perché nelle ultime ore la corsa non ha portato ad alcun risultato) non ha avuto successo. Da domenica sera, 26 settembre, e ancora di più da ieri mattina, il 27 settembre, le costruzioni nelle colonie sono riprese con grande fanfara.
 
Ma il dramma è tuttora in atto e vi recitano tre attori: l’Olp e il suo presidente Mahmoud Abbas (Abou Mazen); il governo israeliano del premier Benjamin Netanyahu; l’amministrazione Usa del presidente Barack Obama.
 
L’Olp si basa sul principio legale perenne, lite pendente nihil innovetur (“non si cambi nulla mentre è in corso la discussione”),  e cioè che una parte non deve cambiare in modo unilaterale la situazione che è oggetto di negoziati. È impossibile accettare la buona fede dell’altra parte, essi dicono, se essi proclamano di negoziare la fine dell’occupazione del territorio palestinese e nello stesso tempo, gli stessi interlocutori, continuano ad approfondire e allargare l’occupazione. A queste condizioni, dicono i palestinesi, l loro partecipazione ai dialoghi rischia di non far avanzare la liberazione, e avrebbe il sicuro effetto di legittimare la colonizzazione del loro territorio. L’Olp sottolinea che tale colonizzazione è contraria alla Quarta Convenzione di Ginevra (1949), di cui Israele era membro, che proibisce a un potere occupante di colonizzare parte del territorio occupato; essa è pure contraria a un certo numero di risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu che applicano questa norma internazionale al territorio in questione; infine essa va contro la posizione dell’amministrazione americana che dal 1967 afferma le stesse cose.
 
Il governo di Netanyahu in Israele sta dicendo in pratica che esso non potrà sopravvivere se ferma la crescita delle colonie: ciò è dovuto alla forte rappresentanza di circoli nazionalisti pro-colonie nel parlamento israeliano (Knesset), nella coalizione di governo e perfino nello stesso partito di Netanyahu, il Likud. Come è ovvio, la caduta del governo, non faciliterà senz’altro i negoziati di pace.
 
Israele afferma che l’Olp, abbandonando ora il tavolo dei negoziati, non guadagnerebbe nulla: la corsa alle colonie continuerebbe, ma Netanyahu – che si è impegnato pubblicamente a sostenere la nascita di uno Stato palestinese – non sarebbe là per attuare questa promessa con la sua politica centrista. E vi sono magre prospettive che un prossimo governo israeliano sia più moderato. Gli israeliani dicono dunque ai palestinesi che questo è il tempo propizio, la preziosa opportunità da afferrare e da cui trarre il massimo dei vantaggi.
 
L’amministrazione Usa in sostanza è d’accordo con la posizione palestinese. Essa è sempre stata la posizione americana e in generale quella della comunità internazionale. Ma essi dicono che nei fatti essi sono impotenti nel voler costringere Israele ad obbedire. Il presidente Obama ha già tentato una volta di costringere Israele ha fermare e desistere dalle attività colonizzatrici, ma poi ha dovuto cambiare tono – in modo piuttosto brusco – quando ha scoperto di non avere sufficiente “capitale politico” da spendere su questo tema nel suo Paese. Con gli Usa alla vigilia delle elezioni del Congresso in novembre, l’amministrazione sente che non può provocare le potenti lobby che sostengono le posizioni più radicali fra gli israeliani. Così, in pratica, anche gli americani, come gli israeliani, cercano di persuadere i palestinesi che abbandonando i negoziati non c’è nulla da guadagnare e tutto da perdere. Il ragionamento è il seguente: quanto prima si raggiunge un trattato di pace, tanto prima le attività delle colonie verranno fermate; d’altra parte, ritirarsi dai dialoghi – seppure giustificabile dal punto di vista dei principi – porterebbe soltanto da ulteriori insediamenti israeliani nel prossimo futuro.
 
Il presidente Abou Mazen sembra voler continuare i negoziati, forse per le ragioni dategli dagli americani. Ma potrebbe avere grosse difficoltà a giustificarsi davanti alla sua stessa gente, mentre giorno per giorno la loro terra e le loro acque vengono derubate. Per questo egli ha chiesto per la prossima settimana un incontro con la Lega Araba, in cui ascoltare il consiglio degli altri membri dell’organizzazione regionale. Se lo consigliano di continuare i negoziati, come Usa e Israele lo spingono a fare, egli avrà la buona “copertura” di cui ha bisogno; se invece la Lega Araba gli consiglia di ritirarsi dai dialoghi, egli avrà la “protezione” contro tutte le pressioni che gli chiedono il contrario. Intanto egli ha pure chiesto la riunione dei consigli di Fatah e di tutta l’Olp, per ascoltare le loro opinioni e ricevere suggerimenti.
 
Il “peccato originale” alla radice di quanto vediamo oggi è forse nella “Dichiarazione di principi”, nell’originale “Accordo di Oslo” fra Israele e l’Olp del 13 settembre 1993. Lì si dice che “gli insediamenti” saranno materia per i negoziati di pace nella loro fase conclusiva. Il riferimento è agli insediamenti che erano già in atto quel tempo. Nessuno pensava che la frase potesse essere interpretata ne senso che le colonizzazioni potevano continuare dopo la data del 1993.
 
In quella data lontana, il 13 settembre 1993, si pensava che il definitivo accordo di pace sarebbe stato concluso entro il 1999, mettendo fine anche all’occupazione. Ciò non è ancora accaduto.
 
Ma il numero dei coloni e il territorio coperto dalle colonie hanno continuato a crescere in modo esponenziale negli ultimi 17 anni. Tanto che un numero crescente di commentatori – fra i palestinesi, ma anche fra gli israeliani, non solo di sinistra – sono ormai dell’opinione che stabilire uno Stato palestinese nei territori occupati è ormai impossibile. L’unica alternativa, essi dicono, è di fondere Israele e i territori palestinesi occupati in un unico Stato, con arabi ed ebrei come cittadini alla pari. Un simile Stato avrebbe ora 6 milioni di cittadini ebrei e più di 4 o 5 milioni di cittadini palestinesi (compresi gli attuali palestinesi cittadini di Israele, all’interno dei confini israeliani).
A causa dell’alto tasso di natalità fra i palestinesi, una maggioranza palestinese nello Stato unitario sarebbe solo un problema di qualche anno. Per la vasta maggioranza degli ebrei israeliani questo è uno “scenario da incubo”, la fine dello Stato di Israele come essi lo conoscono ed amano, quale specifica casa nazionale del popolo ebraico.
 
Ogni volta che si costruisce un’altra casa negli insediamenti, ogni volta che un’altra famiglia di coloni si trasferisce nella West Bank, questo scenario si avvicina sempre più, diventando una realtà da cui è impossibile fuggire. Per quegli israeliani e palestinesi che desiderano ancora avere il loro proprio  Stato – nazionale e magari democratico – e che pensa che ciò sia ancora possibile (ma non si sa per quanto tempo ancora), la ripresa delle attività nelle colonie è fonte di profondissima ansietà.
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