13/12/2007, 00.00
AFGHANISTAN
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Parroco di Kabul: testimoniare il Natale tra i musulmani afghani

Padre Giuseppe Moretti, guida della comunità cattolica internazionale in Afghanistan, riflette sul senso del Natale in un Paese in guerra e al 99 per cento islamico: è il momento, qui come in occidente, di riprendere coscienza della nostra dignità di cristiani. Solo così questa festa non è vuota e la nostra testimonianza nel mondo potrà contribuire alla pace e donare una speranza, che non sia solo illusione.
Kabul (AsiaNews) - "Riprendere coscienza della nostra identità e della nostra dignità di cristiani" ed insegnare il Vangelo attraverso la nostra vita: solo così riusciremo "a portare la speranza di salvezza del Natale a tutto il mondo, compreso quello islamico". È l'invito della guida religiosa di una "comunità di trincea": p. Giuseppe Moretti, parroco dell'unica chiesa in Afghanistan, la cappella interna all'ambasciata italiana a Kabul. Con AsiaNews in occasione del Natale il sacerdote barnabita, anche responsabile della missio sui iuris afghana, riflette sul senso profondo di questo avvenimento:  "Se lasciamo fuori la porta il festeggiato, Gesù, se non diciamo al mondo che è per la Sua nascita che gioiamo, il Natale diventa solo un rito pagano".
 
Padre Moretti, come percepiscono il Natale gli afgani?
Gli impiegati afgani in ambasciata già ci stanno facendo gli auguri. Sanno benissimo chi è Cristo, essendo una figura molto nobile nel Corano, e c'è un grande rispetto per la festività. Loro sanno che celebriamo la nascita di Gesù e il fatto che sappiano e sentano il bisogno di esprimerci gli auguri è comunque indicativo, ha un significato. Questo per esempio non avviene a Pasqua, una festività molto più difficile per loro da comprendere. A volte vengono in chiesa con la curiosità di vedere il presepio.
 
Da cattolico in un Paese al 99 per cento musulmano e per di più in guerra, cosa augura al mondo cristiano occidentale?
Sento adatta in questo periodo la parola di San Leone Magno: "Agnosce, o christiane, dignitatem tuam" (abbi coscienza, o cristiano, della tua dignità). Tradotto oggi suonerebbe più come "sii consapevole, o cristiano, della tua dignità, della tua identità". Mi auguro che questo Natale sia occasione per la necessaria ripresa di coscienza del Cristianesimo, ora che si trova ad affrontare le grandi sfide della nostra società: famiglia, vita, bioetica, dialogo interreligioso, pace. L'esortazione è rivolta sia a coloro che vivono in nazioni tradizionalmente cristiane, sia a chi da emigrato si trova in diversi Paesi, soprattutto in quelli a maggioranza islamica. La negazione dei nostri valori porta alla laicizzazione di contenuti e forma di questa festa, e tende  così ad ignorare il festeggiato: Cristo. Se le luminarie, gli auguri, i regali - che ci devono essere - non sono il frutto della nostra gioia per la nascita del Salvatore, allora stiamo paganizzando il Natale. Se lasciamo fuori dalla porta il festeggiato, l'avvenimento non ha più senso. Ecco perché il  Natale è occasione per riprendere coscienza della nostra dignità di cristiani, va festeggiato degnamente solo in funzione di Colui che nasce. Questo è valido soprattutto per noi, cattolici della comunità internazionale, che siamo qui in Afghanistan come una minoranza, una comunità di trincea.
 
Come può il cristiano contribuire alla pace e alla speranza in una società come quella afgana, da decenni in guerra?
Non avendo qui nessuna possibilità di evangelizzazione esteriore (processioni, prediche, incontri) la nostra evangelizzazione è la nostra vita, il nostro esempio quotidiano. Ci consideriamo un seme immesso da Dio su questa terra; un seme ha bisogno di essere coltivato, e noi nel nostro piccolo possiamo preparare il terreno dove poi nasceranno i frutti. La nostra testimonianza sarà tanto più credibile, quanto più la nostra vita di cristiani sarà conforme al messaggio di Cristo. E qui non c'è da confrontarsi solo con il mondo islamico, ma anche con quello dei miscredenti che sono la maggioranza degli occidentali nel Paese. Chi viene a messa qui, viene perché è convinto; allora una  volta uscito deve trasferire il suo essere cristiano laddove lavora: alberghi, sedi diplomatiche, basi militari. Altro non possiamo fare: c'è un albero di Natale davanti alla chiesa e stiamo preparando il presepio. Il cristiano vero, consapevole della propria dignità, è di conseguenza anche messaggero di speranza. Dovunque operi, egli deve fare in modo, concretamente, che la speranza della pace non sia qualcosa di vuoto, un desiderio irraggiungibile. Affinché la speranza non si trasformi in disperazione, affinché non sia un'illusione. Spe salvi, appunto, dobbiamo essere costruttori di pace, ma prima di tutto di speranza, la speranza cristiana. Soprattutto in un Paese come questo, che ha bisogno di speranza vera, di una pre-certezza che quanto si desidera, prima o poi avverrà. (MA)
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