09/09/2004, 00.00
iraq - italia
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Vescovo di Baghdad: "Condivido il vostro dolore, ma restate fermi contro il terrorismo"

di Lorenzo Fazzini

Mons. Sleiman conforta gli italiani per il rapimento delle 2 volontarie, ma chiede all'Italia impegno a tutto campo contro il terrorismo, per l' Iraq e per l'Europa

Baghdad (AsiaNews) – "Italiani, non scoraggiatevi: la crisi dell'Iraq non è solo un problema dell'Iraq, ma anche del Medio oriente e dell'Europa". "Non è ripiegandosi su se stessi che si può vincere la guerra al terrorismo. Ristabilire la pace in Iraq è assicurare anche la stabilità in Europa". Ne è sicuro mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad di rito latino. Mons. Sleiman ha detto ad AsiaNews che la chiesa in Iraq si "attiverà certamente" per la liberazione delle 2 italiane, anche se è difficile trovare gli interlocutori adeguati.

Ecco l'intervista rilasciata da mons. Sleiman ad AsiaNews.

Il rapimento delle 2 italiane: azione terroristica o altro?

Penso ci sia un legame, se non proprio un'alleanza, fra banditismo e terrorismo organizzato, tra delinquenza locale e terroristi stranieri. Ognuno può servire l'altro per arrivare al proprio scopo.

La chiesa irachena si attiverà per  le 2 italiane?

Certamente, ma il problema è che non si sa con chi parlare: è una cosa tremenda, si vive in una situazione di assoluta impotenza, quando nessuno non ha alcun potere. A chi ricorrere quando ci sono problemi così: non si sa, e questo è un fatto molto grave.

Che messaggio vuole lanciare al popolo italiano che è nell'angoscia per le 2 connazionali rapite?

Sento la stessa pena degli italiani, condivido il vostro dolore. Ma bisogna ricordarsi che la crisi dell'Iraq non è solo un problema dell'Iraq, ma di tutto il Medio oriente e dell'Europa … Prima di sconfiggere il terrorismo, ci saranno ancora tante vittime. L'importante è non scoraggiarsi, ma fare di tutto per ristabilire la pace in Iraq. La pace qui in Iraq vuol dire anche la pace in Europa.

A cosa si riferisce quando dice "ristabilire la pace"?

Ogni volta che succede una crisi di questo genere, si pensa di rinunciare alle proprie decisioni politiche e a tutti gli impegni presi. Questa tentazione è forte, come anche il desiderio di ripiegarsi sui propri interessi e sul proprio Paese. Ma per difendere il proprio Paese dal terrorismo bisogna avere le frontiere più grandi e operare in modo più vasto.

Cosa vuole dire alle Ong italiane che lavorano in Iraq? Restare o partire?

È difficile dire agli altri di restare quando c'è una situazione concreta di pericolo. In questa guerra i terroristi non fanno differenza per i volontari che fanno del bene e lavorano per la gente: non è nella loro logica. La vita delle persone straniere in Iraq sarà sempre a rischio. Soprattutto per gli italiani: l'Italia era stata minacciata da vari gruppi terroristici.

Qualcuno ha parlato di "libanizzazione" della crisi irachena. Lei, che è libanese, concorda?

In parte. Le manifestazioni del male – rapimenti, attentati, lotte fra servizi segreti diversi – si assomigliano, ma il contesto è differente. In Libano c'era uno scontro violento fra le diverse fazioni locali. Invece in Iraq c'è un nuovo governo che cerca di prendere il controllo e in questo è ostacolato da terroristi internazionali e da una certa resistenza interna.

Dopo gli attacchi del 1 agosto si è temuta la fuga dei cristiani dall'Iraq.

L'emigrazione dei cristiani è una piaga antica, non è iniziata con le bombe di agosto. Certo, dopo quei fatti molte famiglie hanno deciso di lasciare l'Iraq, ma si tratta di un problema molto più ampio e profondo.

Quale ruolo per i cristiani nel paese?

In questa crisi i cristiani svolgono la parte dei mediatori pacifici. Non hanno rivendicazioni politiche proprie, tanto meno fatte con la violenza. Vogliono invece che sia ripristinata la forza dello stato e la sicurezza della società irachena.

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