03/03/2011, 00.00
CINA
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Wei Jingsheng: Aspettando una Rivoluzione dei gelsomini anche in Cina

di Wei Jingsheng
Se si vuole avere una democrazia cinese, o una araba, bisogna valutare bene la forza dei dittatori e del movimento che vuole rovesciarli. Democrazia e diritti umani sono, in Cina, canzoni che canta soltanto un’elite: è necessario invece mobilitare le masse senza trattare con i tiranni. L’analisi del grande dissidente cinese.
Washington (AsiaNews) - Negli ultimi mesi, la Rivoluzione dei gelsomini in atto nei Paesi arabi è cresciuta fino a un’altezza tale da superare i confini nazionali ed espandersi a livello mondiale. Anche i giovani cinesi hanno imparato da quella lezione e lo scorso 20 febbraio hanno chiamato la Cina alla propria Rivoluzione del gelsomino. Tuttavia, il Partito comunista (nervoso per l’accaduto) si è dimostrato pronto. Il Partito ha enfatizzato l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per “mantenere la stabilità”. I giovani purtroppo si sono dimostrati dotati di poca esperienza e hanno sottostimato le capacità dei comunisti: l’evento si è concluso senza troppe attività rivoluzionarie. Anzi, al contrario, si è chiuso con l’arresto e la detenzione di molti dei leader del movimento. A prima vista, il gioco non è valso la candela.
 
Tuttavia, questa percezione non è corretta. È naturale che ai giovani manchi esperienza. Tuttavia, gli stessi giovani sono pieni di energia e pronti a sacrificarsi per le loro idee. Questa prontezza di sacrificio confuta il pensiero di coloro che guardano i ragazzi dall’alto in basso e sostengono che le nuove generazioni siano peggiori delle vecchie. Mostra al contrario che ogni generazione ha i propri coraggiosi e talentuosi. L’esperienza può essere poi imparata e accumulata. Una persona che cade può imparare come rialzarsi. Come le onde sul fiume Yangtze: le più vicine alla riva sono spinte da quelle più lontane. Fino a che avremo degli eredi, potremo sperare di riuscire.
 
Tuttavia vanno presi in considerazione anche i punti di vista dei critici. Se esaminiamo la Rivoluzione dei gelsomini nelle nazioni arabe, possiamo ricavarne molto in termini di esperienza. Comparando i successi e i fallimenti di questa rivolta vedremo la differenza fra il popolo arabo e quello cinese.
 
Credo che la prima questione riguardi la scelta sbagliata dei tempi. In Egitto, Tunisia e Libia il risentimento è andato accumulandosi per anni, arrivando a un livello tumultuoso. Questo risentimento è alla fine esploso in un effetto-domino, innescato da un singolo incidente. Inoltre, la Rivoluzione dei gelsomini è stata scatenata in Cina soltanto dalle notizie di rivolte nei Paesi arabi: non è nata da un sentimento interno alla società. Di conseguenza il movimento si è limitato a galleggiare sulla superficie, senza un fondamento solido nelle masse.
 
Eppure la società cinese è molto simile a quella egiziana, con dei furti diffusi ed estremi da parte dei burocrati capitalisti. Soffre inoltre di inflazione e disoccupazione di massa. Tuttavia, la popolazione non ha concentrato ancora il pensiero sul fatto che i propri dolori vengono dal Partito comunista. Invece di fare questo, si sono focalizzati su questioni minori e sulle persone ad esse collegati. Questa atmosfera è molto diversa da quella del 1989. A quel tempo, anche se il popolo non aveva obiettivi molto alti – limitati nei fatti a richiedere minore corruzione nel governo – raggiunse traguardi riconosciuti in tutta la Cina. Anche se non era organizzata, si trattava di una situazione in attesa da molto tempo. Quella sollevazione era molto simile alle recenti rivoluzioni arabe.
 
Ma questa volta la Rivoluzione dei gelsomini in Cina non ha quelle credenziali. Esistono dei problemi comuni – espropri forzati, licenziamenti, mancanza di libertà di parola – ma la reazione a questi non si concentra sull’irragionevole e dittatoriale sistema retto dal Partito comunista. Quando la media della resistenza non ha raggiunto il punto di ebollizione, imitare le attività degli altri (come incitare alle dimostrazioni) non potrà che produrre quello che è avvenuto il 20 febbraio. Soltanto quando si arriva ad ebollizione si può verificare quell’incidente che poi scatena il collasso. Come avvenuto ad esempio in Tunisia.
 
Questa breve analisi dimostra che controllare il ritmo e i tempi del movimento è l’esperienza essenziale che dobbiamo imparare dalle rivoluzioni, sia compiute che fallite. Se si mette soltanto la passione, si rischia di compromettere il successo della rivoluzione o quanto meno il raggiungimento di quei cambiamenti del sistema sociale che si sperano. Ogni maggiore mutazione del sistema sociale (che in superficie sembra essere avvenuto casualmente) non è soltanto il risultato di anni di promozioni e agitazioni, ma anche il frutto che si ottiene quando si sceglie il tempo e il bersaglio giusto. Anche se per anni monta l’indignazione pubblica, scegliere male la tempistica e l’obiettivo possono condurre al fallimento di una rivoluzione. Per oltre due decenni, i fallimenti del movimento democratico in Cina sono stati imputabili a questo errore di selezione: non certo per una mancanza di impeto sociale.
 
Prendiamo ad esempio la recente Rivoluzione dei gelsomini cinese. Il suo scopo era quello di rovesciare il Partito comunista per stabilire al suo posto un sistema democratico. Questo obiettivo è, di principio, corretto. Tuttavia, l’impeto popolare di sacrificare il proprio sangue per un futuro bellissimo che ancora non si è mostrato è molto meno urgente rispetto all’esigenza di curare le ferite attuali. Al momento il male peggiore secondo la maggior parte dei cinesi non viene da una mancanza di democrazia e diritti umani, ma dall’inflazione e dall’enorme divario fra gli stili di vita. Perdere necessità quotidiane come riso e sale potrebbe essere una chiamata a cui risponderebbero, in un istante, in migliaia. Invece termini come democrazia e diritti umani sono al momento simili a canzoni, che canta soltanto una elite, a cui manca la risposta diretta della maggioranza.
 
Non esiste neanche una rivoluzione democratica che sia stata scatenata dallo slogan “Democrazia”. Invece, soltanto dopo una rivoluzione la gente sceglie un nuovo sistema democratico. Ogni individuo ha in testa un obiettivo più importante. Soltanto quando questi obiettivi si uniscono in una corrente unica inizia a bruciare il fuoco della rivoluzione. Soltanto quando gli obiettivi della rivoluzione si integrano negli obiettivi della maggioranza si avrà un movimento coeso. Soltanto quando le canzoni di una elite si ammantano dei bisogni essenziali della media si risponderà a un’unica chiamata. Allora potremo perseguire l’obiettivo maggiore, partendo dal minore.
 
Il primo passo dovrebbe essere quello di pubblicizzare e promuovere le nuove idee. Senza pionieri della democrazia come Thomas Jefferson e John Adams non ci sarebbe negli Stati Uniti un sistema democratico. Si sarebbe verificata invece una rivoluzione come quella brasiliana, ovvero la cacciata di un re portoghese per proclamare un imperatore locale. Dire che Adams e Jefferson sono i padri fondatori della democrazia americana non è un’esagerazione. Tuttavia, la rivoluzione è nata dalla base, dai Tea Party di Boston e dai contadini. L’attrattiva principale per queste persone non era la democrazia o la libertà: era l’abuso compiuto dai britannici sulle colonie, e il dolore provocato da questo abuso. La maggioranza della popolazione voleva liberarsi da questo dolore, e così facendo hanno avuto successo nella rivoluzione.
 
Se a quei tempi la popolazione delle colonie avesse fatto dei compromessi con i dominatori – invece di combattere fino alla fine – ci sarebbe stata democrazia negli Usa? Certamente no. Ora, se le varie popolazioni scendono a compromessi con il Partito comunista – o con Mubarak, o con Gheddafi – invece di essere determinati a cacciarli, esisterà mai una democrazia cinese o una araba? Ovviamente no. Questa è la regola.
 
La gente spera sempre di risolvere differenze e dispute in modi pacifici, razionali e non violenti. Tuttavia questo deve essere fatto dopo che sono state stabilite delle regole che definiscano il termine “ragionevole”. I metodi di cui sopra, infatti, funzionano soltanto con persone ragionevoli. Trattare con tiranni irragionevoli rende impossibile essere a propria volta ragionevoli. Soltanto distruggendoli come si fa con un nemico si avrà una società che rispetta la ragione. Anche dopo aver stabilito un sistema sociale democratico, si potrà usare la forza – polizia e militari – contro banditi irragionevoli e malviventi.
 
Immaginare di poter eliminare la forza per sempre è irrealizzabile proprio come il comunismo, una fantasia che ottiene risultati opposti. Fare una cosa del genere significa scatenare violenze diffuse, mentre i dittatori tornano a sedersi sopra la testa della popolazione.
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