Abbas in Libano: ‘promesse’ ma nessuna data sul disarmo dei campi profughi
Nella prima visita in Libano dal 2017 il presidente dell’Autorità Palestinese si è impegnato al disarmo, pur senza stabilire tempi certi. Un processo complesso che Beirut considera prerequisito per la fine totale della lotta armata di Hezbollah. Nella dichiarazione congiunta con il presidente Aoun anche l“implicita” riaffermazione del diritto all’esistenza di Israele.
Beirut (AsiaNews) - “Il tempo delle armi fuori dal controllo dello Stato è finito”. Sono le parole pronunciate ieri dal capo dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas (Abu Mazen), nel primo giorno di una visita di 72 ore in Libano. Si tratta di uno dei passaggi più significativi del discorso, parte di una visita ufficiale il cui obiettivo principale è quello di elaborare un piano per il disarmo dei campi profughi palestinesi nel Paese dei cedri. Un passo fondamentale, quest’ultimo, per il recupero della sicurezza interna e della sovranità del Libano, entrambe perse alla fine degli anni ‘60 in seguito alla guerra lampo con Israele del 1967 e all’ascesa delle organizzazioni palestinesi. Come conseguenza del conflitto, infatti, i Paesi arabi avrebbero perso il controllo di Gerusalemme, delle alture del Golan e della Cisgiordania, tutti territori che sono stati poi annessi o sono in procinto di esserlo.
La visita di Abbas è la prima dal 2017 nel Paese che ospita circa 220mila rifugiati palestinesi, i quali vivono in campi sovraffollati al di fuori del controllo delle autorità libanesi. Distribuiti in tutto il territorio nazionale, in particolare a Tripoli, Beirut, Saida e Tiro, le principali città della costa, i 12 campi profughi palestinesi sono stati trasformati nel corso degli anni e dei decenni sia in fortezze armate, che in aree urbane sovraffollate e miserabili. Politicamente, questi campi sono diventati dei microcosmi delle divisioni interne al mondo arabo. Il presidente libanese Joseph Aoun e l’omologo dell’Autorità palestinese Abu Mazen stanno affrontando questo pesante fardello del passato, mentre la guerra infuria ancora a Gaza. Del resto per analisti ed esperti di politica regionale, il disarmo dei campi e quello di Hezbollah sembrano essere processi inscindibili.
Va da sé che il disarmo dei campi richiede un notevole sforzo militare e di sicurezza da parte del Libano, oltre al disarmo di Hezbollah. E non è detto che il Paese e i suoi vertici riescano a trovare e addestrare le 8-10mila truppe aggiuntive di cui ha bisogno per garantire la sicurezza dei campi ed eliminare le armi dei miliziani filo-iraniani a sud del fiume Litani, in conformità con la Risoluzione 1701. Le persone vicine al presidente assicurano che sta procedendo con molta cautela per superare gli ostacoli che si frappongono sulla sua strada, il più grande dei quali non proviene dall’esterno, quanto dall’interno.
Detto questo, secondo un funzionario del governo libanese citato dall’Afp, ieri Abbas ha parlato di “istituire un meccanismo per raccogliere le armi e rimuoverle dai campi” profughi, pur senza stilare un calendario preciso. Tuttavia, sappiamo dagli scontri armati del passato tra Fatah (di Abu Mazen) e i gruppi estremisti islamici ad Ain al-Hilweh, vicino a Saïda, che questo disarmo non sarà affatto immediato, né scontato.
Lo dimostra il fatto che, dopo il lancio di due razzi non rivendicati verso Israele lo scorso marzo, a cui lo Stato ebraico ha risposto bombardando i sobborghi meridionali di Beirut, l’esercito, a seguito di un’indagine, ha lanciato un severo avvertimento ad Hamas. Il movimento palestinese che controlla la Striscia di Gaza è stato infatti ritenuto responsabile di questa grave violazione del cessate il fuoco. Qualsiasi attacco condotto dal territorio libanese esporrà il gruppo alle “misure più severe”, hanno avvertito le autorità di Beirut, che hanno richiesto anche la consegna di quattro membri dell’organizzazione.
Tuttavia, solo due di essi sono stati consegnati, mentre gli altri risultano ufficialmente “in fuga”. Di contro, l’esercito libanese ha smantellato pacificamente, e di comune accordo, sei campi di addestramento di organizzazioni palestinesi, retaggi dell’egemonia siriana, situati al di fuori dei campi profughi, in particolare a Naamé, vicino a Beirut e nella Bekaa.
Il piano americano
La neutralizzazione del Libano e della Siria dall’asse iraniano della “moumanaa”, che collega fra gli altri Teheran ed Hezbollah, è considerata da Washington uno degli elementi chiave del suo piano per la regione. Ne è prova l’annuncio a sorpresa del presidente Usa Donald Trump nella capitale saudita della revoca delle sanzioni statunitensi alla Siria. Questa decisione, che equivale al riconoscimento del nuovo potere a Damasco, ha salvato il Paese da una guerra civile “su larga scala” secondo il capo della diplomazia Usa Marco Rubio, in un’audizione alla Commissione affari esteri del Senato. Sintetizzando, un “ritorno dell’Iran in Siria sarebbe catastrofico” ha detto Rubio.
In cambio della revoca delle sanzioni, il presidente degli Stati Uniti aveva chiesto all’omolgo siriano Ahmad al-Shara’ di controllare e possibilmente espellere dalla Siria i gruppi armati - Stato Islamico, ceceni, etc - responsabili dei massacri tra la popolazione alawita sulla costa siriana e delle atrocità contro la comunità drusa. E gli ha anche chiesto di normalizzare le relazioni con Israele.
Dopo la decisione di Trump, il ministro siriano della Difesa Mourhaf Abou Qasra ha concesso lo scorso 17 maggio ai gruppi armati una scadenza di 10 giorni per unirsi alle forze del Paese, nel tentativo di unificare i ranghi interni dopo la cacciata di Bashar al-Assad. In seguito a questa decisione, il vice inviato speciale del presidente degli Stati Uniti per il Medio oriente Morgan Ortagus ha invitato il Libano “a trarre ispirazione” dal leader siriano. Tuttavia, il presidente Aoun si rifiuta di affrettare i tempi. “Una cosa alla volta”, riferiscono fonti a lui vicine. Gli osservatori attendono ora i risultati concreti dei colloqui con Abbas, per giudicare se la sua politica è fondata.
Tuttavia, nella loro dichiarazione congiunta di ieri i presidenti Aoun e Abbas hanno sottolineato “la necessità di raggiungere una pace giusta e stabile nella regione, per consentire al popolo palestinese di stabilire il proprio Stato indipendente, in conformità con le risoluzioni internazionali”. I due leader hanno anche dichiarato di “riconoscere i diritti legittimi di tutti i Paesi e i popoli della regione”, una sottolineatura che può essere interpretata come un tacito riconoscimento da parte del Libano e dell’Autorità Palestinese del diritto all'esistenza dello Stato israeliano. Ma questo riconoscimento è condizionato alla realizzazione di una soluzione a due Stati in Terra Santa, che il governo di Benjamin Netanyahu sinora rifiuta. Certo, il presidente Aoun ha dichiarato apertamente il suo desiderio di tornare a una situazione di “non guerra” con Israele, ma tutto ci porta a credere che, ahimè, sarà la logica della forza a prevalere in Medio oriente.
13/06/2017 09:10