Bo: volto di ‘sinodalità e misericordia’ in un Myanmar ferito dalla guerra
La giunta al potere, il nodo Rohingya emerso in occasione del viaggio di papa Francesco nel 2017, le ricchezze del territorio e le violenze dei militari. Luci e ombre di una nazione nata nello stesso anno del porporato. L’invito a combattere “odio e divisione”, il volto moderato in politica interna e gli attacchi a Pechino per le violazioni a diritti e libertà religiosa, come nell’arresto del card. Zen.
Città del Vaticano (AsiaNews) - “La sola guerra che abbiamo bisogno di combattere è quella contro l’odio e la divisione”, un demone che non risparmia nemmeno i cristiani del Myanmar, tanto da chiedersi: “Possiamo identificarci anche con noi con un’identità culturale simile a una casta o a tutte le altre identità? Possiamo cedere alla tentazione di trattare gli altri sulla base di identità che sono costruite dalle mani dell’uomo, quando invece tutti siamo Figli di Dio creati a sua immagine?”. In queste poche frasi, pronunciate nel marzo scorso durante l’omelia per l’ordinazione episcopale del nuovo ausiliare di Yangon, il cardinale arcivescovo Charles Maung Bo racchiude il dramma di una nazione dilaniata da conflitti e tensioni etnico-confessionali. Il porporato, presidente della Conferenza episcopale, è fra gli elettori asiatici al Conclave che inizia il prossimo 7 maggio è porta con sé le sfide della missione in un Paese fragile e instabile: dai militari che hanno rovesciato il governo democratico nel febbraio 2021 riprendendo il potere, alla polveriera confessionale fra maggioranza buddista e minoranze, in particolare i Rohingya nello Stato occidentale di Rakhine.
Il card. Bo, salesiano ed ex presidente della Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc) fino al gennaio scorso, è nato il il 29 ottobre 1948 nel villaggio di Monhla, arcidiocesi di Mandalay. Studia presso il seminario Nazareth di Anisakan, a Pyin Oo Lwin, dal 1962 al 1976. Emette i voti temporanei il 24 maggio 1970 e quelli perpetui il 10 marzo 1976. È ordinato sacerdote a Lashio (Stato di Shan), il 9 aprile 1976. Dopo aver prestato servizio come parroco dal 1976 al 1981 a Loikham e Lashio, dal 1983 al 1985 è assegnato al seminario di Anisakan come formatore, poi amministratore apostolico a Lashio dal 1985 al 1986 e prefetto apostolico dal 1986 al 1990. Quando la prefettura è elevata a diocesi (7 luglio 1990), è nominato primo vescovo e consacrato il 16 dicembre. Il 13 marzo 1996, papa Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Pathein, nella regione Ayeyarwady. Il 24 maggio 2003 è arcivescovo di Yangon, dove si installa il 7 giugno 2003. Il 21 ottobre 2015 diventa il primo vescovo birmano a prendere possesso del titolo cardinalizio.
Nato nello stesso anno in cui il Myanmar, ex-Birmania, diventa uno Stato indipendente, il porporato ha vissuto in prima persona le sofferenze di un popolo ancora oggi sotto il giogo della dittatura militare. Anche per questo il suo approccio verso la politica interna ha sempre mostrato toni “moderati”, mantenendo canali di dialogo coi generali e intimando a sacerdoti e uomini di Chiesa di non farsi coinvolgere in rivolte o proteste contro il regime, soprattutto al tempo della “Rivoluzione zafferano” del 2007. Ciononostante, non ha mancato di far sentire la propria voce per i diritti umani, la libertà religiosa e il dialogo fra fedi diverse, invocando pace e giustizia. Dopo aver ricevuto la berretta cardinalizia, il porporato ha ribadito di voler essere “voce di chi non ha voce”. Al contempo ha mostrato un volto critico nei confronti di Pechino - anche da presidente Fabc - prendendo le difese degli attivisti cattolici di Hong Kong, condannando l’arresto del card. Joseph Zen e invocando giustizia e libertà religiosa. Pur attaccando la leadership comunista cinese, non ha mai sconfessato l’accordo provvisorio Cina-Vaticano sottoscritto nel 2018 e rinnovato di recente.
Espressione del crescente clero asiatico, provenendo oltretutto da una realtà in cui i cattolici sono una minoranza a differenza delle Filippine, il porporato presenta tratti comuni a Benedetto XVI e Francesco, soprattutto in materia di sinodalità e misericordia. Già in un’intervista ad AsiaNews del 2015, a poche settimane dalla berretta cardinalizia e alla vigilia delle prime elezioni “libere”, sottolineava luci e ombre di una nazione che avrebbe conosciuto nei 10 anni successivi altre tragedie fra cui un nuovo golpe militare e il recente terremoto. “In molte parti del mondo la democrazia è un’attività politica. In Myanmar, la democrazia - spiegava il card. Bo - è un pellegrinaggio sacro” e una “sfida a tutte le egemonie. Il viaggio di Gesù sul Calvario è stato caratterizzato da tribolazioni, dubbi e frequenti passi indietro”.
Descriveva il Myanmar come “ricco, che di recente si è aperto al mondo esterno e ha registrato episodi di saccheggio veri e propri. Negli ultimi quattro anni di cosiddetta ‘democrazia’ [fra il 2012 e il 2015, ndr] è scomparso il 30% delle foreste. Secondo alcuni studi in un anno sono usciti dal Myanmar giada e preziosi per un valore di almeno 31 miliardi di dollari” a conferma di un quadro di criticità anche in una fase di relativa libertà. Uno Stato “ancora ai primi posti per mortalità infantile. E chi ha imparato a rubare - affermava - non si metterà certo in futuro ad apprendere una professione più nobile. Non penso che le cerchie del malaffare e i loro padroni spariranno. Queste persone sono schiave delle nazioni vicine, vendono il loro benessere per denaro. Un vero sistema federale, che sappia valorizzare una comunità basata sulla gestione sana delle risorse naturali - auspicava il porporato - è la sola strada percorribile per la pace e la giustizia ambientale”.
Infine, il card. Bo non ha mai mancato di sottolineare il variopinto mosaico che lo forma, sebbene sia stato fonte di criticità e violenze confessionali. “In Myanmar vi è una tradizione ricca ed elegante legata al buddismo Theravada. Nel Paese vi sono circa 500mila monaci e 70mila religiose buddiste. Sono una fonte di ispirazione e di vita all’insegna della rinuncia e della compassione. Metta e Karuna (misericordia e compassione) sono i due occhi del vero Buddha. Sfortunatamente, vi sono anche mercanti di odio che abusano della religione e cercano di sfruttarla per ricoprire un ruolo politico. Seminare odio, discriminare le persone in base alla fede professata - affermava - non è parte del buddismo”. Un richiamo, pur senza nominarlo, alle persecuzioni contro la minoranza musulmana Rohingya, che resta un tema sensibile nel Paese. Del resto lo stesso porporato, in occasione del viaggio apostolico di Francesco in Myanmar nel 2017, aveva invitato il papa a non usare il termine “Rohingya” perché controverso e legato a dispute etniche e territoriali mai risolte, preferendo come definizione “musulmani del territorio di Rakhine”.