11/10/2010, 00.00
VATICANO - M. ORIENTE
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Chiesa d’Israele e d’Arabia, la missione e la libertà religiosa

Superare il ghetto e il ripiegamento su se stessi, testimoniare la fede con le opere, i pellegrinaggi, il quotidiano lavoro ecumenico. Nel Vicariato d’Arabia, la massima concentrazione di fedeli da 100 nazionalità diverse. La Chiesa è viva pur senza piena libertà religiosa.
Milano (AsiaNews) – Le Chiese in Medio oriente hanno urgente bisogno di riscoprire la testimonianza e l’unità fra di loro. È quanto è emerso dall’incontro tenutosi il 9 ottobre al Pime di Milano, alla vigilia del Sinodo per il Medio Oriente.
 
L’incontro, promosso da “Mondo e Missione” e dal Suam (Segretariato unitario animazione missionaria) ha messo in luce soprattutto la testimonianza di mons. Paul Hinder, vicario apostolico d’Arabia e di mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vicario per Israele del Patriarcato latino di Gerusalemme.
 
“Le nostre Chiese non sono abbastanza missionarie – ha affermato mons. Marcuzzo, da 50 anni in Terra Santa - In passato le comunità cristiane del Medio Oriente hanno vissuto un forte impulso missionario (recenti scoperte hanno fatto venire alla luce testimonianze che dimostrerebbero l’arrivo in Tibet di nestoriani nei primi secoli della cristianità). Oggi invece siamo ancora troppo chiusi, ghettizzati, ripiegati su noi stessi anche a causa delle circostanze che ci hanno obbligati in tal senso”.
 
Allo stesso tempo, il vescovo ha fatto notare che per fortuna vi sono altre forme di testimonianza: “Per noi cristiani parlano le opere (scuole, ospedali…), parlano i Luoghi santi (un ebreo che visita Nazareth non può non porsi certe domande su Gesù), parlano i pellegrini che arrivano da tutto il mondo, non per fare turismo ma per pregare”. C’è poi il quotidiano lavoro per la pace, per l’ecumenismo, per il dialogo interreligioso ai vari livelli “e questa – ha sottolineato il vescovo è già missione”.
 
Mons. Hinder ha invece presentato la situazione della sua missione, quella del Vicariato d’Arabia, che comprende una grossa fetta del Golfo Persico (con l’esclusione del Kuwait, che da solo ospita 3 milioni di cristiani e dell’Arabia Saudita, dove non v’è nessuna libertà religiosa e si calcola che vi siano almeno un milione e mezzo di filippini). Una Chiesa precaria – composta pressoché esclusivamente da immigrati da tutto il mondo – eppure vivace, ricca di fede.
 
Il Vicariato apostolico d’Arabia - ha detto mons. Hinder -  è “un territorio immenso, il mio mezzo di trasporto abituale è l’aereo”. Esso conta oggi 2,5 milioni di cattolici. Al loro servizio c’è una sessantina di preti, che fanno riferimento a 7 parrocchie negli Emirati Arabi Uniti, 4 in Oman, 4 piccolissime in Yemen, una in Barhein (“a cui presto – speriamo - se ne aggiungerà un’altra”) e una a Doha, in Qatar. I fedeli provengono da 100 diverse nazionalità.
 
“La mia esperienza è quella della moltiplicazione dei pani: manchiamo di libertà religiosa e di piena libertà di culto”. E ciò è dovuto proprio al fatto che i fedeli sono tutti migranti: “in quanto tali, non sono cittadini di serie A, sono considerati in qualche modo ‘di passaggio’, perché questi Paesi non vogliono l’integrazione”. Tuttavia - afferma Hinder - "riusciamo a offrire ai fedeli i sacramenti e la catechesi, non senza problemi”. E i problemi sono presto detti: l’enorme flusso di fedeli alla Messa del venerdì (nelle festività maggiori si succedono una decina di celebrazioni in varie lingue); il catechismo a migliaia di ragazzi (6mila a Dubai, 4mila ad Abu Dhabi…).
 
“La nostra missione è un autentico miracolo quotidiano, reso possibile dal grande fervore dei laici. Avremmo bisogno di più personale apostolico, ma talora quando chiedo la possibilità di avere altri preti [le autorità governative] mi rispondono ‘non sono già abbastanza?’ In ogni caso, sono grato a quei governanti che ci consentono di fare quel che oggi già facciamo”.
 
Alla domanda su cosa si aspetta dal Sinodo, mons. Hinder ha risposto: “In primo luogo che serva a prendere atto della vivacità della nostra Chiesa, dove vive ormai la maggior parte dei cattolici del Medio Oriente, perché quello che viviamo noi come Chiesa pellegrina, fortemente segnata dalla migrazione, è una sorta di ‘laboratorio’ interessante per tutte le chiese del mondo.
 
In secondo luogo spero che il Sinodo ci aiuti a vivere la comunione, perché una delle piaghe del Medio Oriente è che si dicono belle parole, ma esiste tanta gelosia reciproca e ciascuno è tentato di coltivare il proprio orticello”. (GF)
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