15/11/2022, 12.29
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Curdi, Isis e Siria: le spine che minano il potere del sultano Erdogan

di Dario Salvi

Il Pkk smentisce il coinvolgimento nell’attentato alla via dello shopping di Istanbul. Ora il governo “non esclude” la pista jihadista. La preghiera della Chiesa turca per le vittime. Vicario di Istanbul: l’attacco “fulmine” a ciel sereno, colpisce la ripresa del turismo e dei pellegrinaggi. I “nemici” interni ed esterni e la corsa alle presidenziali 2023.

Milano (AsiaNews) - A distanza di quasi 48 ore restano ancora molti punti oscuri nella vicenda dell’attentato che si è consumato nel pomeriggio del 13 novembre scorso in una delle vie più popolari e affollate di Istanbul, capitale economica e commerciale della Turchia. Le massime istituzioni, dal presidente ai membri del governo, hanno subito puntato il dito contro i “terroristi” autori di un “vile attacco” per colpire il cuore del Paese. In particolare, il ministro degli Interni ha indicato la pista curda addossando le responsabilità - forse con una fretta sospetta, o quantomeno incauta - al Partito curdo dei lavoratori (Pkk) e alle milizie curdo-siriane Ypg. Le indagini convergerebbero verso Kobane, la città siriana dalla quale proviene la (presunta) attentatrice, Ahlam Albashir, e dove l’azione avrebbe preso forma.

In queste ore è arrivata la secca smentita del movimento combattente curdo, che nega ogni coinvolgimento nell’esplosione che ha causato la morte di sei persone e il ferimento di oltre 80. “È assolutamente fuori discussione - riferisce in una nota il Pkk - per noi colpire civili, sotto qualsiasi forma”. Qualche dubbio sembra emergere anche dalle parti di Ankara, perché a stretto giro di vite è arrivata la dichiarazione di un funzionario governativo secondo cui “non è completamente esclusa” l’ipotesi che il gesto sia opera dello Stato islamico (SI, ex Isis), sebbene in genere il gruppo jihadista rivendichi nell’immediato le proprie azioni attraverso i canali social. E sull’attacco a Istanbul non si sono levate voci, né commenti e anche i sostenitori del “califfato” non hanno espresso particolare entusiasmo.

Di certo restano il dolore per le vittime e i loro familiari, oltre al riemergere di vecchi fantasmi che agitano il sonno di Recep Tayyip Erdogan e della sua lotta per restare al potere. Le tre spine del sultano, oltre al problema di una economia al palo e di una inflazione che galoppa: i curdi, il conflitto siriano con il suo carico di rifugiati, prima accolti e ora un peso ingombrante, e l’Isis. All’orizzonte si profila il voto del 2023; come fanno notare diversi osservatori, le elezioni del recente passato sono state precedute da un semestre di attentati e violenze di matrice esterna e interna, fra cui il controverso golpe del 2016 che ha fatto vacillare le fondamenta di Ankara. Di fronte a tutto questo resta la leadership di Erdogan che, in questi anni, ha saputo mantenere il controllo del Paese, ma che mai come oggi sembra avere bisogno di un “nemico” per restare incollato alla poltrona. 

La preghiera della Chiesa turca

L’attentato ha colto di sorpresa la città e i suoi abitanti, che cercano a fatica di lasciarsi alle spalle due anni di chiusure e restrizioni legate alla pandemia di Covid-19 e che, nel commercio e nel turismo, trovano una fonte essenziale di guadagno. Riaprendo al contempo ferite del passato. “Purtroppo l’attentato - racconta ad AsiaNews mons. Massimiliano Palinuro, vicario apostolico di Istanbul - è avvenuto come un fulmine a ciel sereno, perché il clima nella città, soprattutto negli ultimi tempi, era disteso. E si registrava un aumento notevole del flusso di turisti e visitatori, segnando un momento favorevole per la ripresa del settore in Turchia”.

“In questo momento - prosegue il prelato - sentiamo come prioritario l’atteggiamento della preghiera, del raccoglimento e della solidarietà alle vittime che hanno perso la vita e ai tanti feriti, coinvolti nella tragedia. Come cristiani, ci sentiamo ancora di più impegnati a costruire relazioni di pace, a essere nella società turca costruttori di ponti e artefici di riconciliazione”. 

A distanza di 24 ore dall’attentato, ieri pomeriggio il vicario di Istanbul raccontava: “Si respira tanta paura, alcune strade sono deserte e la popolazione è rimasta sconcertata. C’è timore rispetto al futuro, tanta incertezza, gruppi di turisti e pellegrini hanno cancellato i loro viaggi, presi dal panico e questo rimane un problema molto concreto, perché vi era stata una ripresa di turisti come dei pellegrini, che garantiscono posti di lavoro. L’indotto è una pagina molto importante per l’economia turca”. Adesso, osserva mons. Palinuro, è il momento di “tenere i nervi saldi, bisogna evitare di far precipitare la situazione, la polizia turca è molto efficiente” e ha esperienza “nell’individuare eventuali cellule terroristiche che potrebbero essere dietro all’attentato. C’è tutta una organizzazione, in termini di sicurezza, che sta mettendo in moto le iniziative necessarie per neutralizzare possibili attacchi in futuro. È evidente che la situazione politica internazionale - conclude - non facilita la situazione; anche l’incertezza economica diventa un deterrente per il malcontento popolare. Per questo è fondamentale mantenere i nervi saldi”. 

Le spine del sultano alle presidenziali

Istiklal Avenue, teatro dell’attentato, è una via commerciale multietnica della sponda europea della metropoli turca ricca di ristoranti, negozi, attività commerciali e luoghi di culto, fra cui chiese e moschee, oltre a consolati stranieri. Chi ha voluto colpire potrebbe averla scelta non solo perché è un luogo affollato, ma per il suo essere simbolo di consumismo, di apertura, di diversità in un Paese in cui il nazionalismo (e l’islam) si sono fatti strada negli ultimi anni e si sono rivelati le armi che hanno permesso a Erdogan di saldare il potere, anche prima dell’ulteriore escalation della crisi innescata dalla pandemia. Del resto non è il primo caso in cui la leadership usa il collante del terrorismo per rinsaldare un dominio traballante, alimentando sentimenti come la paura e l’ira per puntellare il consenso.

Soprattutto in questa fase di crisi economica in cui lo stesso Erdogan, più che al fronte interno, ha puntato molte delle sue carte sul versante internazionale, sulla guerra in Ucraina e sul tentativo di ergersi a mediatore con la Russia di Vladimir Putin, per rilanciare il proprio prestigio. E oscurare le molte accuse di autoritarismo, violazioni dei diritti umani e cronica repressione delle opposizioni interne sfruttando la magistratura e norme ad hoc

Tuttavia, proprio dall’esterno si agitano fantasmi (vecchi e nuovi) che rischiano di oscurare la stella del sultano: a partire dai curdi (siriani e iracheni), che da mesi il presidente colpisce con attacchi mirati in vista di una operazione - bloccata sinora da Mosca e Washington - di più ampio respiro con l’obiettivo di allargare la fascia di sicurezza lungo il confine.

Mire espansioniste che hanno rilanciato il tema della resistenza curda anche nel vicino Iraq, dove sono giunte accuse (non provate) di uso di armi chimiche che hanno sollevato indignazione e la minaccia di una risposta altrettanto dura. Dalla Siria proviene anche la seconda bomba ad orologeria per la società turca: quei quattro milioni di profughi che, all’inizio della guerra, Erdogan ha accolto in nome della comune “fratellanza islamica” (e come arma di ricatto verso l’Europa), e oggi rappresentano un peso insostenibile anche in considerazione di una economia traballante. Un peso che è anche politico, perché sempre più turchi vedono con sospetto (se non odio aperto) la loro presenza, tanto da spingere il governo ad aprire un tavolo di trattative con il “nemico” Bashar al-Assad per un loro ritorno.

Infine, vi è la galassia jihadista che ha giurato vendetta a Erdogan, il quale nei primi tempi aveva di fatto lasciato campo libero all’Isis nei suoi traffici lungo la frontiera turca, salvo poi combatterlo sul piano militare e arrestarne i vertici (anche a scopo propagandistico). Tutti fronti aperti, nodi irrisolti che oggi tornano al pettine e potrebbero costare la rielezione, oltre a rappresentare piste credibili per spiegare l’attentato di Istanbul. L’ennesimo duro colpo per il prestigio del Paese e del governo, che ha cercato di pilotare (e censurare) le informazioni successive all’esplosione, comprese immagini e filmati sui social. Erdogan, scrive l’editorialista di Haaretz Zvi Barel, “non può mostrare di aver perso il controllo della sicurezza del Paese”. 

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