27/09/2005, 00.00
AFGHANISTAN
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Essere cristiano sotto i talebani

di Marta Allevato

M. è un afghano cattolico, rifugiato in Italia. Ha raccontato ad AsiaNews la sua storia di discriminazioni e minacce sotto il regime talebani, dovute alla fede della famiglia:  suo padre  è stato ucciso perché convertito; per salvare il figlio gli ha nascosto di averlo battezzato. Solo arrivato in Italia il ragazzo ha scoperto di essere anch'egli cristiano: "Ora voglio vivere per Gesù anche davanti ai miei amici musulmani".

Milano (AsiaNews) –  Ha subito la discriminazione e il disprezzo nell'Afghanistan dei talebani. È stato costretto a fuggire, perdendo l'intera famiglia. M. - lo chiamiamo così per questioni di sicurezza - è un giovane afghano rifugiato in Italia. È stato sempre cattolico, ma senza saperlo: suo padre, un convertito dall'islam, glielo ha dovuto tenere nascosto, per difenderlo; M. lo ha scoperto solo un anno fa: un mediatore culturale italiano gli ha spiegato che Isai, il nome con cui i suoi coetanei lo denigravano, significa "cristiano"; ha visto nelle chiese le immagini che i suoi tenevano, nascoste, in casa e nelle mani di un insegnante un rosario, come quello di sua madre.

M. viveva in un piccolo villaggio di montagna. Ancora bambino, suo padre, un possidente terriero, è stato ucciso da alcuni vicini. Questi lo accusavano di essersi arricchito svendendo la sua fede islamica e diventando cristiano. In realtà volevano impadronirsi delle sue terre. Secondo leggi locali, i maschi della famiglia della vittima, una volta maggiorenni, hanno il diritto di vendicarsi dell'omicidio di un parente, con il tacito consenso di tutti. Così, gli assassini del padre di M. hanno cominciato a perseguitare lui e il fratello per ucciderli prima che compissero la maggiore età e potessero farsi giustizia da soli. M e suo fratello sono fuggiti. Anche la madre è scappata e da allora il giovane non ne ha più alcuna notizia. Era la fine del 1999, sotto il regime talebano, durante la guerra civile.

"Da piccolo cercavo di entrare in moschea come facevano tutti – racconta M. – ma gli altri me lo impedivano e mi accusavano di non essere musulmano. Io non capivo, ma vedevo piccoli segni che mi facevano pensare che io e la mia famiglia eravamo diversi: con noi non voleva mangiare nessuno; ci dicevano che preferivano far toccare il pane a un cane piuttosto che a noi. Vivevamo isolati, senza amici. Quando cercavo di giocare con gli altri bambini, loro mi tenevano lontano, anche a scuola mi prendevano in giro e mi picchiavano. Tutte le famiglie in casa avevano almeno un'arma per ogni componente; noi avevamo soltanto un vecchio fucile da caccia appeso alla parete, che mio padre usava raramente. I compagni mi offendevano sempre usando la parola Isai. Io pensavo significasse "criminale" o "assassino" e mi sentivo sporco. Intanto continuavo a chiedere spiegazioni a papà: vedevo lui e la mamma dire il rosario (all'epoca non sapevo nemmeno cosa fosse) e guardavo l'immagine di Gesù e della Madonna appese al muro di una stanza della casa, sempre chiusa. Chiedevo, domandavo, ma papà rispondeva solo: Da grande capirai".

M. non sa molto sulla scelta di fede del padre: "Viaggiava spesso, un po' per lavoro ma anche per la sua sicurezza, per non rimanere troppo sotto il tiro di chi lo minacciava". "Nonostante tutto – continua – papà era sereno; quando parlavamo di me mi incoraggiava sempre a studiare per diventare qualcuno e aiutare chi è meno fortunato di me". Ora M. sogna un futuro da medico e vorrebbe fare tante domande a chi conosceva il padre; purtroppo non ha più contatti con nessuno della sua famiglia o amici. "Quando incontro qualche afghano chiedo subito se conosce mio fratello o ma madre, ma finora nessuno mi ha saputo dire nulla".

Sul diario di scuola M. ha scritto l'invito di Giovanni Paolo II ai giovani: "Non abbiate paura". La paura lo ha braccato di continuo: dall'Afghanistan è scappato prima in Pakistan, poi in Iran, in Turchia e infine in Italia. "In Pakistan - continua il ragazzo - lavoravo come sarto, ma sono rimasto solo qualche mese, perché gli assassini di mio padre continuavano a cercarci. In Iran per un anno ho lucidato i pezzi delle auto, ma anche da qui sono fuggito per motivi di sicurezza e mi sono diretto in Turchia. Nel viaggio per passare il confine ero con mio zio e mio fratello, ma io camminavo più avanti di loro, insieme ai contrabbandieri, perché ero piccolo. Arrivati vicino alla frontiera ricordo che la polizia ha iniziato a sparare, i colpi illuminavano a giorno l'oscurità della notte e la ricordo come fosse ieri. Durante la sparatoria ci siamo tutti buttati a terra, ma una volta rialzatomi non ho più trovato mio fratello e mio zio". Dei circa 70 profughi che seguivano i contrabbandieri quella notte, ne hanno passato il confine solo 6. "A Istanbul per sopravvivere e pagarmi il biglietto per l'Italia (2.500 dollari) tagliavo i pneumatici delle gomme per fare suole di scarpe. Lì si viveva nel terrore: la polizia faceva incursioni quotidiane nella fabbrica e noi ci nascondevamo dentro le pile di ruote d'auto". In Turchia M. ha incontrato quelli che definisce "due angeli custodi". "Erano due giovani più grandi di me che senza conoscermi mi hanno aiutato moltissimo: prima mi hanno trovato casa e lavoro e poi hanno continuato a tenermi d'occhio fino alla fine". Sono loro che hanno consigliato a M. di partire per l'Italia, dove poteva "sperare di essere riconosciuto come rifugiato". Si trattava allora di scegliere come viaggiare: "Molti profughi dalla Turchia decidono di comprare un canotto gonfiabile e arrivare in Grecia con un viaggio in mare di oltre 7 ore, ma il numero dei morti ogni volta è altissimo. Me lo raccontava sempre uno dei "due angeli": lui faceva il dottore e andava a recuperare i cadaveri a riva. Proprio lui mi ha consigliato così di aspettare un po', mettere da parte i soldi e viaggiare clandestino su una nave turistica".

Solo una volta arrivato in Italia M. ha scoperto cosa ha determinato il suo difficile destino: la fede dei suoi genitori. "I primi tempi ero spaesato, ma ho subito avvertito una forte sensazione di libertà: appena vedevo un poliziotto avevo paura, ma poi ho visto che nessuno mi voleva far del male, che non era come in Turchia". Una volta a contatto con gli enti statali preposti all'accoglienza dei profughi, M. ha dovuto raccontare la sua storia. "Da quel momento ho cominciato a ricollegare tanti particolari e ho capito che la mia famiglia era cattolica: il mediatore culturale mi ha rivelato il significato dell'offesa che mi rivolgevano in Afghanistan Isai, cristiano; ho visto un rosario in mano a una mia insegnante a scuola, che mi ha spiegato cos'era e la stessa cosa è successa con l'immagine di Gesù e Maria".

Dopo aver scoperto la religione della sua famiglia M. era "arrabbiato con il padre": "Non mi aveva fatto partecipe della sua fede e ci aveva costretti per essa a soffrire tanto dolore". Poi ogni sera prima di andare a dormire ha iniziato a interrogarsi, a "sentire il desiderio di conoscere ciò per cui lui aveva messo in pericolo la sua vita e quella dei suoi cari".  "Ho cominciato ad andare in chiesa, ho incontrato degli amici e con loro partecipo al coro della mia parrocchia e faccio volontariato con gli anziani". "Negli altri paesi dove ho vissuto - spiega M. - ho provato ad andare in moschea, ma la chiesa è diversa: la moschea mi ricorda sempre la sensazione di rifiuto che ho subito; in chiesa mi sento a casa, non giudicato, anzi accolto per quello che sono".

M. ha molti amici musulmani in Italia, che, con il tempo, hanno imparato ad accettarlo anche se è cristiano. "All'inizio mi consideravano musulmano come loro – racconta – lo davano per scontato a causa della mia nazionalità".

"Quando gli altri hanno visto che andavo a messa, per un po' mi hanno guardato male: i musulmani non entrano in chiesa, e quindi non capivano. L'anno scorso, quando ho scelto di non osservare il Ramadan mi hanno criticato". Ma M. ha deciso ormai di testimoniare la sua fede: "Tre giorni fa un amico marocchino è entrato in camera ha aperto il mio armadietto e ha visto che avevo appeso la croce e la foto di Gesù. Mi ha chiesto perché lo facessi e io ho spiegato senza vergogna di essere cristiano".

La speranza di M. è poter ricostruire i contatti con sua madre e con suo fratello: "Soffro ancora molto, mi manca la mia famiglia, ma almeno tutte queste peripezie sono servite ad una cosa: ora capisco che quello per cui mio padre è morto, Gesù, è vero ed è fonte di vita".

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