Gerusalemme: nel nome di Vivian Silver attivisti e religiosi in piazza per la pace a Gaza
A 600 giorni dall’inizio del conflitto cristiani, musulmani ed ebrei hanno manifestato nel nome dell’attivista uccisa da Hamas. L’obiettivo di mantenere i valori di convivenza e umanità contro i massacri in atto. Una voce “contro la guerra” e contro quanti “pensano che non ci siano persone innocenti” nella Striscia. Intanto Israele approva altri 22 insediamenti e avamposti in Cisgiordania.
Gerusalemme (AsiaNews) - “Non possiamo andarcene a casa, abbiamo perso centinaia di amici e vi sono ancora 58 ostaggi israeliani nei tunnel di Hamas”. È il messaggio di resistenza, e resilienza, lanciato ieri da Avi Dabush, leader di Rabbis for Human Rights, in occasione della manifestazione in Zion Square, a Gerusalemme, per la fine della guerra nella Striscia e il ritorno dei prigionieri. Una manifestazione che si è tenuta in concomitanza con i 600 giorni dall’inizio del conflitto e dedicato dai promotori alla memoria di Vivian Silver, la pacifista e fondatrice di Women Wage Peace uccisa il 7 ottobre 2023 nell’attacco terrorista, fra le 1200 vittime israeliane. “La lotta altrettanto grande - ha proseguito Dabush - è mantenere i nostri valori. Per opporsi alla morte di massa di bambini e donne a Gaza, per alzare una voce coerente e di principio contro la guerra e contro coloro che pensano che non ci siano persone innocenti”.
Leader religiosi e cittadini comuni si sono riuniti fuori dalla città vecchia, in risposta alle violenze che hanno caratterizzato la “marcia delle bandiere” di ebrei ortodossi e nazionalisti dei giorni scorsi per celebrare l’annessione della zona Est e i 600 giorni dall’inizio della guerra a Gaza. In centinaia hanno sfilato a Gerusalemme fra cristiani, ebrei e musulmani per rilanciare un messaggio di pace e di convivenza che sembra essere relegato ai margini di un’agenda politica del governo israeliano caratterizzata dal conflitto a tutto campo. “Lo sforzo di trasformarla in una città improntata allo sciovinismo ebraico - afferma Ori Weisberg, uno dei partecipanti interpellato dal Times of Israel - in cui sia i suoi abitanti che i suoi visitatori sono maltrattati e umiliati è una profanazione”.
Durante la marcia delle bandiere lo stesso Weisberg si è recato nella città vecchia, per proteggere i palestinesi dagli attacchi di giovani israeliani radicali nel quartiere musulmano. Fra quanti hanno ricordato l’attacco del 7 ottobre e la successiva spirale di guerra e violenze, gli oltre 53mila morti a Gaza in larga maggioranza civili, fra cui donne e bambini, vi era anche il rabbino Avi Dabush. Nel suo intervento egli ha parlato di “giorno terribile” che ha poi originato il “periodo più sanguinoso nella storia del conflitto israelo-palestinese, che dura da 20 mesi”.
Residente del Kibbutz Nirim, il 7 ottobre Dabush ha trascorso ore nel suo rifugio con la moglie e i due figli mentre i terroristi attaccavano, uccidendo cinque civili e rapendone altri cinque. “Oggi dovevamo essere qui” ha affermato Kefaia Masarwi, membro di Women Wage Peace che ha partecipato alla Marcia. “Quello che sta accadendo è orribile per tutti. Siamo venuti per dire basta alla guerra, basta al tempo in cui gli ostaggi non tornano, basta all’uccisione dei bambini” ha aggiunto l’attivista. “Gerusalemme dovrebbe essere la città della pace, e ora è tutto il contrario” prosegue Jo Even Caspi, anch’essa parte dell’ong fondata da Vivian Silver.
Sacerdoti, suore e pastori, persone con kippah e foulard erano riconoscibili tra i partecipanti alla manifestazione, molti dei quali indossavano camicie bianche e ombrelli bianchi, cantando l’iconico brano associato al movimento per i diritti civili degli Stati Uniti “We Shall Overcome”. Tra coloro che si sono uniti alla marcia vi era anche l’ambasciatore tedesco in Israele Steffen Seibert e lo sceicco Hassan Abu Elyon, della comunità beduina di Rahat. “Nella tradizione islamica, salam [pace] è uno dei nomi di Dio” ha detto. “Che Dio benedica tutti, ebrei e arabi, musulmani e cristiani”. Gli fa eco p. Piotr Zelazko, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica in Israele, secondo cui partecipare alla marcia è stato importante perché “questo è un momento cruciale nella storia di Israele”. “Nonostante l’oscurità che ci circonda, ci sono molte persone - ha proseguito - che credono che ci possa essere la pace, che non è solo assenza di guerra, ma anche giustizia sociale e relazioni con l'altro”. Alla domanda su come la Chiesa cattolica sia spesso percepita come più vicina ai palestinesi che a Israele, il sacerdote ha ribadito l’identità israeliana. “Facciamo parte di questo Paese da 70 anni e da 70 anni - conclude - siamo al 100% israeliani e al 100% cattolici”.
Sempre ieri a migliaia hanno affollato la piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, per ricordare i 600 giorni dei prigionieri nelle mani di Hamas e il loro ritorno alle famiglie di origine. I partecipanti hanno attaccato il governo di ultra-destra guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, ritenuto responsabile di “600 giorni di fallimento” di “truffa ai danni dell’opinione pubblica, di insabbiamento delle indagini sul più grande fallimento della nostra storia”. Tuttavia l’esecutivo israeliano appare più interessato al conflitto, alle colonie e alla politica di espansione più del ritorno a casa degli ostaggi. In queste ore il dicastero israeliano della Difesa ha ufficializzato una notizia in circolazione da giorni, secondo cui i ministri hanno approvato la costruzione di 22 nuovi insediamenti in Cisgiordania; fra questi vi saranno una serie di nuove comunità e la legalizzazione di diversi avamposti (illegali secondo il diritto internazionale). Per la leadership dello Stato ebraico, mai così vicina al movimento dei coloni, si tratta di una “decisione storica” perché gli insediamenti “rafforzeranno la presa strategica su tutte le parti della Giudea e della Samaria [Cisgiordania]” e “impediranno la creazione di uno Stato palestinese”. Il ministro Israel Katz afferma che la mossa “rafforza la nostra presa [sul territorio] ed è una risposta decisiva al terrore palestinese”.
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