16/12/2021, 12.48
PAKISTAN-CINA
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Gwadar: in migliaia bloccano il porto, fiore all’occhiello della Belt and Road

Chiedono lo stop alla presenza dei grandi pescherecci cinesi che uccidono la piccola pesca, alla base dell’economia locale. Pechino si prende il 91% degli introiti portuali. Rischi per nuovi investimenti cinesi. Invocati programmi sociali e redistributivi come soluzione alla crisi.

Pechino (AsiaNews) – Da un mese un’imponente protesta blocca la città pakistana di Gwadar, dove sorge uno scalo portuale costruito con i finanziamenti cinesi della Belt and Road Initiative. Lanciata nel 2013 da Xi Jinping, la Belt and Road (o “nuove Vie della seta”) è il megaprogetto infrastrutturale con cui Pechino vuole diventare il fulcro del commercio globale.

Nei piani del gigante cinese e di Islamabad il porto di Gwadar dovrebbe essere il fiore all’occhiello del Cpec, il corridoio economico tra lo Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, e la costa del Belucistan pakistano sul Mar Arabico. Si tratta di una rete di strade, porti, aeroporti, ferrovie, oleodotti, gasdotti, linee a fibra ottica e stabilimenti industriali. Sulla carta vale 50 miliardi di dollari, ma dopo otto anni i cinesi l’hanno realizzata solo in parte.

Le manifestazioni a Gwadar sono guidate da un politico locale, Maulana Hidayat ur Rehman. Migliaia di persone, soprattutto donne, sono accampate all’ingresso del locale porto controllato dai cinesi. I dimostranti chiedono lo stop ai grandi pescherecci che in alto mare praticano la pesca a strascico: i piccoli pescatori locali sono infuriati soprattutto per la continua presenza di imbarcazioni cinesi  nelle acque antistanti Gwadar. Chiesta anche la rimozione dei posti di blocco in città e la possibilità di commerciare più liberamente con il vicino Iran.

Le proteste, mai di una tale ampiezza a Gwadar, hanno avuto una vasta eco nazionale. Il premier Imran Khan è intervenuto dichiarando che il governo sosterrà le legittime richieste dei manifestanti. Khan ha promesso di adottare misure contro la pesca illegale nelle acque interessate. Rehman, segretario della sezione locale del partito islamista Jamaat e Islami, ha minacciato di alzare la posta in gioco se l’esecutivo non accoglierà tutte le richieste dei manifestanti.

Secondo quanto riporta Nikkei Asia, il leader della protesta ha sollevato il problema della divisione dei profitti generati dalle attività portuali: al momento la Cina si prende il 91%; Rehman vuole si passi al 98% per il Pakistan. Il governo pakistano considera il “capopopolo” di Gwadar un terrorista e ha congelato i suoi conti bancari.

L’investimento cinese a Gwadar non garantisce al momento il ritorno economico sperato. A causa delle proteste, le operazioni portuali sono minime, ma anche prima della crisi la situazione non era molto migliore. Per diversi osservatori, sit-in permanenti come quello a Gwadar mettono a rischio l’afflusso di nuovi investimenti cinesi. Sono risorse vitali per il Pakistan, che ha gravi problemi economici.

A ciò si aggiunge la costante minaccia armata di separatisti balochi e fondamentalisti islamici che spesso prendono di mira personale cinese e strutture Cpec nel Paese. Un quadro di tensioni, che secondo diversi osservatori potrebbe essere migliorato con seri programmi sociali e redistributivi, magari con il coinvolgimento cinese e soprattutto delle popolazioni interessate.

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