08/11/2021, 10.38
AFGHANISTAN
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Hussain Rezai: 'La mia lotta per le donne afghane'

di Alessandra De Poli

La testimonianza di un esule hazara che a Daykundi aveva creato una Fondazione in onore della fidanzata uccisa in un attentato. "Volevamo lottare contro l'oblio della memoria, ma i talebani hanno distrutto tutto". Ora in Italia cerca un modo per far studiare la sorella. 

Milano (AsiaNews) - L'uccisione di quattro donne a Mazar-e-Sharif, trovate morte in casa, ha riacceso negli ultimi giorni i riflettori sulla condizione femminile nell'Afghanistan nonostante la propaganda dei talebani. Una di loro - Frozan Safi - era un’attivista e insegnava all’università. Da quanto ricostruito le quattro uccise sono probabilmente state ingannate: avevano ricevuto delle telefonate in cui veniva loro detto che avrebbero potuto lasciare il Paese e si sono fidate delle persone sbagliate.

Una tragedia che ha bucato lo schermo dell'informazione, ma che è troppo simile a tante altre storie che arrivano dall'Afghanistan. “Quando me ne sono andato mi è sembrato di lasciare l’inferno, di scappare di prigione”. Hussain Rezai parla ad AsiaNews tenendo davanti a sé un quaderno con la scritta “Re-born” sulla copertina. Ha un viso grande, pacifico, e sorride mentre sorseggia tè allo zafferano con accanto la sorella Fatima Jaan. “Ho paura che i talebani compiano una pulizia etnica di noi hazara”.

Hussain fa parte della comunità più perseguitata in Afghanistan. In queste settimane sono arrivate numerose testimonianze sugli hazara costretti ad abbandonare i loro villaggi, dopo che i talebani ne avevano confiscato le case e le terre. Dalle province arrivano anche voci di uccisioni extragiudiziali, impossibili da verificare anche perché tutti oggi hanno troppa paura di possibili ritorsioni. Hussain, ora che ha lasciato l’Afghanistan, può raccontare le atrocità che ha vissuto.

È arrivato a Perugia a fine agosto, ma è riuscito a portare con sé solo la sorella. La madre, i fratelli e i due nipoti di cui si prendeva cura dopo la morte di un'altra sorella, sono rimasti indietro. A Kabul lavorava nella commissione anti-corruzione del governo afghano. Dopo l'arrivo dei talebani nella capitale ha cominciato a nascondersi in casa di amici perché non sapeva se e quando sarebbero venuti a prenderlo. “Ho indossato un vecchio peraahan tunbaan, il vestito tradizionale afghano per gli uomini, mi sono fatto crescere la barba e ho smesso di lavarmi per non essere riconoscibile e per non sembrare un ex funzionario”, racconta ad AsiaNews. È stato aiutato a fuggire da un giornalista italiano con cui aveva lavorato nel 2012 e da un parente, Hamed Ahmadi, che li aveva fatti conoscere. Aveva il permesso per far uscire anche i due nipoti, Hadi e Mahdi, che però, in quei giorni frenetici dopo ferragosto in cui le forze occidentali cercavano di evacuare più afghani possibile, si sono persi nella folla e non sono riusciti a entrare all’aeroporto.

La vita di Hussain era stata già sconvolta il 24 luglio 2017, quando un attentato suicida colpì un autobus su cui stavano viaggiando dei funzionari del ministero delle Miniere e del Petrolio. Muoiono 36 persone. Tra di loro c’era anche Najiba Bahar, la sua fidanzata. “Era tornata da sei mesi in Afghanistan, stavamo comprando tutto l'occorrente per celebrare il matrimonio nel suo villaggio nella provincia di Daykundi”.

Najiba era una ragazza brillante. Laureatasi in informatica in India, era poi ripartita per il Giappone con un’altra borsa di studio per un master di due anni. Siccome dopo l’attentato il corpo non si trovava, gli amici di Hussain gli avevano proposto di seppellire una bara vuota. Ma lui voleva qualcosa di tangibile. Dopo diverse ore gli hanno inviato la foto di una mano e ha riconsociuto l’anello di fidanzamento che aveva regalato a Najiba. “È stato il giorno più brutto della mia vita. Per due anni non mi sono scrollato di dosso il trauma”, prosegue. “Ma se anche avessi preso una pistola e fossi andato a uccidere un talebano che cosa sarebbe cambiato? Non sapevo nemmeno chi fosse responsabile dell’attacco”.

È stato così che Hussain ha dato vita alla Najiba Foundation nella città di Nili, provincia di Daykundi. All’inizio era solo una biblioteca, “perché volevamo combattere i talebani con l’istruzione”. Poi le attività della fondazione si sono ampliate: in onore di Najiba è stato costruito un laboratorio informatico alimentato a pannelli solari, poi è stata creata una squadra di pallavolo femminile. “Volevamo vendicarci dei talebani in maniera non violenta, creare tante piccole Najiba e lottare contro l’oblio della memoria, far sapere alle nuove generazioni che tutto quello che abbiamo fatto è stato fatto grazie al sangue dei nostri cari”.

Il mese scorso la biblioteca è stata distrutta, il laboratorio saccheggiato, le pallavoliste non giocano più e si nascondono. È stato dopo l’attacco alla Fondazione che Hussain ha deciso di lasciare il suo Paese, temendo che i talebani venissero a cercarlo.

Hussain ha una laurea triennale in sociologia e filosofia e ha studiato relazioni internazionali. Prima di andarsene ha cercato di nascondere tutti i libri che potessero essere pericolosi per la sua famiglia, quelli di filosofia e di inglese. Quando AsiaNews gli chiede che cosa voglia fare, ora lui dice che prima vuole pensare a sua sorella: “cercarle una borsa di studio del governo italiano e iscriverla all’università". “Quanto a me, mi piacerebbe continuare gli studi, ma una cosa alla volta”. Intanto è salvo in Italia, poi si vedrà. Forse, quel “re-born” sulla copertina del suo quaderno, quell’ennesima rinascita, non è così irrealizzabile.

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