30/10/2025, 13.56
MYANMAR
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I vescovi del Myanmar: 'Piangiamo con chi piange, cerchiamo ciò che è giusto'

A poche settimane dalle elezioni volute a tutti i costi dalla giunta militare birmana in un Paese ancora in guerra i vescovi del Paese hanno diffuso un messaggio al proprio popolo, messo in ginocchio dalla crisi generale causata dal conflitto, dal terremoto e dal collasso economico. "tre milioni di persone sfollate non sono numeri. La pace è l’unica via. Non permettiamo all’odio di definirci. Non lasciamo che la disperazione vinca".

Yangon (AsiaNews) - Gli scontri armati, il terremoto, i disastri naturali, il collasso economico. E tre milioni di persone sfollate dalle proprie case a causa di una guerra di cui non si vede la fine. È a un intero popolo piegato dalla sofferenza che i vescovi di tutte le diocesi del Myanmar hanno indirizzato in queste ore un messaggio per esprimere ancora una volta la propria vicinanza e l’invito alla riconciliazione, condizione di partenza per poter ricominciare davvero a ricostruire. Una parola che giunge a poche settimane dalle elezioni generali che la giunta militare ha indetto per il 28 dicembre e l’11 gennaio, ma che in un Paese dove i leader delle forze politiche che vinsero le elezioni del 2021 sono tuttora in carcere e molte zone del Paese sono controllate da milizie ribelli, appaiono lontane dal poter essere un vero esercizio di democrazia.
Pubblichiamo qui di seguito in una nostra traduzione il testo integrale del messaggio diffuso ieri dai vescovi del Myanmar.

Cari fratelli e sorelle del Myanmar e di tutto il mondo,

In questi tempi di grande dolore, incertezza e confusione, anche se non siamo presenti fisicamente, siamo con voi nello spirito. Da nord a sud, da est a ovest, il nostro amato Paese sta affrontando una crisi senza precedenti nella sua storia. Non si tratta di una singola tragedia, ma di una crisi generale, come la definiscono gli esperti. Le emergenze si accumulano, una situazione difficile ne genera un’altra. Viviamo in mezzo a guerre, disastri naturali, sfollamenti, collasso economico e disintegrazione sociale. Per molti di noi, i giorni sono lunghi e le notti altrettanto.

Trauma umano – sfollamento e sofferenza
Cominciamo dalla cosa più straziante nelle nostre vite: la sofferenza umana. Secondo le Nazioni Unite, tre milioni di birmani sono stati costretti a lasciare le proprie case dall’inizio del conflitto. Queste tre milioni di persone non sono numeri. Sono esseri umani: padri, madri e figli. Alcuni vivono nelle foreste sotto gli alberi, altri nei campi, nei monasteri o in tende. Non hanno cibo, sicurezza né istruzione. Nelle aree colpite dal terremoto, interi villaggi sono stati distrutti.
Ci sono stati crolli. Edifici sono collassati. Vite si sono spente in pochi secondi. Città e villaggi nelle zone di conflitto sono stati ridotti in macerie. Alcune persone sono dovute fuggire più volte dalle loro case; altre si sono spostate da un luogo all’altro in cerca di sicurezza, portando con sé pochi averi, ma anche paura e trauma.

La sofferenza silenziosa di donne e bambini
Nei tempi di guerra e di disastro, le donne e i bambini portano i pesi più gravosi. Molti bambini non vanno a scuola da anni. Le loro aule sono in rovina, il loro futuro è incerto. Alcuni hanno perso i genitori, altri hanno assistito alla violenza con i propri occhi. Molti soffrono la fame, la salute peggiora e non riescono nemmeno a esprimere il loro dolore.
Molte donne piangono in silenzio. Soffrono per la perdita dei familiari, si prendono cura di orfani e temono abusi. Talvolta crescono i figli all’aperto, senza riparo né cure mediche. Eppure, in mezzo a queste difficoltà, continuano a crescere le loro famiglie, a cucinare per la comunità, a pregare nel silenzio della notte e a confortare chi è nel lutto.

Mancanza di comprensione tra le parti
Cari amici, una delle ferite più profonde che vediamo è la mancanza di comprensione e fiducia tra i principali attori e tra le parti in causa. Ci sono molte fazioni, molti punti di vista, molte necessità. Ma c’è poco dialogo. Pochi spazi reali in cui i cuori possano ascoltarsi.
Di conseguenza, gli aiuti vengono bloccati, lo sviluppo è rallentato e l’assistenza umanitaria è limitata. Spesso i civili, che non stanno da nessuna parte, restano intrappolati nel mezzo del conflitto e ne subiscono tutte le conseguenze. I giovani che un tempo desideravano studiare, lavorare e costruire un futuro migliore ora sono pieni di paura, rabbia e disperazione. Le loro forze vengono meno, i loro talenti sprecati, le loro speranze sepolte. Alcuni fuggono dal Paese, altri soffrono in silenzio.

Le difficoltà della vita quotidiana
Per la gente comune, la vita quotidiana è una prova di sopravvivenza. In tutto il Paese, i prezzi salgono alle stelle, i posti di lavoro scarseggiano, carburante e medicine sono difficili da trovare, e l’elettricità è intermittente. Ogni famiglia convive con il dolore.
La paura e il panico sono radicati, ma la gente continua ad aiutarsi. A mani vuote, ma con il cuore pieno, mostra compassione e sostegno.

Il cammino cristiano verso l’armonia e la pace
Come cristiani che camminano nella fede, ci poniamo alcune domande: “Dove andare da qui?” “Come possiamo fermare le guerre?” “Potremo mai alzarci insieme e gridare: ‘Non ci sia più guerra nel mondo’?”.
Il cristianesimo non offre scorciatoie per sfuggire alla sofferenza, ma indica un cammino silenzioso che porta alla riconciliazione, alla guarigione e alla pace duratura.
Nella Seconda lettera ai Corinzi, Paolo ci ricorda: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,18). Questo ministero non è solo un dovere religioso, ma un dovere umano.
La riconciliazione non significa dimenticare i problemi o fingere che tutto vada bene. Significa ascoltare le storie degli altri, piangere con chi piange, cercare ciò che è giusto per tutti senza sacrificare il bene di una persona per quello di un’altra.
Cristo stesso ha detto: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5,9).
La pace non è uno stato di inattività o di silenzio, ma qualcosa di vivo: una scelta di vita contro la morte, di onore contro la vendetta, di dedizione alla famiglia contro la solitudine.

Un messaggio di speranza
Non è il momento di arrendersi. È il momento di scavare più a fondo. Dobbiamo trovare il gioiello della speranza tra le ceneri del dolore. La pace è possibile, la pace è l’unica via. Non permettiamo all’odio di definirci. Non lasciamo che la disperazione vinca. Agiamo con i principi della “compassione in azione, verità nella dolcezza e pace instancabile.”
Che il nostro Paese, lacerato da tante ferite, possa risorgere. Che si rinnovi non solo con edifici, ma con cuori nuovi. Che le voci dei nostri figli e nipoti possano un giorno dire: “Non hanno smesso di cercare la pace, così noi siamo potuti tornare a casa.”

Che Dio benedica voi e la grande nazione del Myanmar.

I vescovi del Myanmar

 

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