12/12/2025, 10.56
LIBANO - ISRAELE
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Beirut archivia ‘l’incubo iraniano’ e apre ai negoziati diretti con Israele

di Fady Noun

Con la nomina di un civile, l’ex ambasciatore Simon Karam, alla commissione di supervisione del cessate il fuoco del novembre 2024, Beirut si affranca da Teheran. Fra Paese dei cedri e Stato ebraico proseguono i contatti, anche se restano nodi irrisolti soprattutto al confine. Critiche di Hezbollah che parla di “regalo gratuito” e rifiuta il disarmo a nord del fiume Litani. Si allarga la frattura fra il Partito di Dio e il movimento sciita Amal di Nabih Berry.

Beirut (AsiaNews) - Seppure a piccoli passi, il Libano sta continuando ad uscire dall’incubo iraniano e dal suo indottrinamento ideologico, che impediva qualsiasi normalizzazione con il “nemico israeliano”. Così, all’indomani della storica e commovente visita di papa Leone XIV, Beirut ha avviato un processo di negoziati diretti “di pace” con Israele, in linea con i desideri del pontefice, nominando l’ex ambasciatore libanese a Washington, Simon Karam, già membro della commissione incaricata di supervisionare il cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah (27 novembre 2024). Secondo un’autorevole fonte episcopale libanese, interpellata in esclusiva da AsiaNews, la visita del papa nel Paese dei cedri racchiudeva in sé, fin dall’inizio, una dimensione geopolitica.

Considerato moderato ma legato all’ala “sovranista”, Simon Karam ha il profilo ideale per parlare di diplomazia “da Stato a Stato”, senza ufficializzare frettolosamente una normalizzazione con una “entità” ancora ufficialmente considerata “nemica”. Una normalizzazione i cui prerequisiti, per il Libano, sono il ritiro totale dell’esercito israeliano dal territorio libanese ancora occupato, la cessazione delle ostilità, il ritorno della popolazione libanese nei propri villaggi, la liberazione dei prigionieri libanesi detenuti e la conferma della linea di confine tra i due Paesi.

Richiesta da Israele, questa nomina ha modificato radicalmente, da un giorno all’altro, il clima delle relazioni tra il Libano e Stato ebraico. Difatti la nomina di Karam, come si rallegrano a Beirut, ha il merito accessorio di mettere al riparo le istituzioni dello Stato libanese da eventuali rappresaglie e/o attacchi israeliani. All’interno del comitato di supervisione sopra citato, la controparte israeliana di Simon Karam è Uri Resnick, esperto di diritto internazionale e direttore per la politica estera del Consiglio di sicurezza nazionale di Israele. Le nomine civili mirano, agli occhi dello Stato ebraico, ad ampliare il dialogo oltre i soli aspetti militari. La commissione si è riunita una prima volta a Naqoura, quartier generale della missione Onu in Libano (Unifil), e si riunirà nuovamente il prossimo 19 dicembre.

Hezbollah: un “regalo” a Israele 

Questi colloqui hanno in linea di principio l’approvazione delle tre grandi figure che attualmente gestiscono i rapporti del Libano con Israele: il capo dello Stato, Joseph Aoun, il presidente del Consiglio dei ministri, Nawaf Salam, e il presidente della Camera, Nabih Berry. Quest’ultimo è anche il capo del movimento Amal, principale alleato sciita di Hezbollah. In una dichiarazione indipendente, il Partito di Dio ha affermato che il Libano ha fatto “un regalo gratuito” a Israele nominando Karam. Questa dichiarazione è stata interpretata dagli ambienti politici come uno dei primi segnali di disaccordo tra i leader di Hezbollah e Berry sul processo di uscita dalla guerra.

Al riguardo, va detto che il movimento filo-iraniano continua a negare totalmente l’errore strategico nell’aver voluto intraprendere uno scontro militare con Israele. Questa negazione è accompagnata da una palese malafede, denunciata dall’intera classe politica. Così, agli occhi del deputato delle Forze Libanesi Elias Bou Assi, “l’Iran continua a giocare la carta libanese e a giocare con il destino dei libanesi, e della comunità sciita in particolare, nei suoi negoziati con Washington”.

Le “ambizioni territoriali” in Libano

Per il Libano, la missione di Karam si basa sul presupposto che Israele non abbia ambizioni territoriali in Libano e che il conflitto nel sud del Paese sia un fatto “isolato” o comunque resti contenuto. Una garanzia in tal senso è stata formulata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la scorsa estate, quando in un messaggio su X (ex Twitter) ha negato esplicitamente qualsiasi rivendicazione territoriale da parte dello Stato ebraico nei confronti dei “Paesi vicini”, compreso il Libano. In un’intervista, il premier aveva infatti parlato del suo legame con “una visione storica o ideologica del territorio”, che era stata interpretata da alcuni media e governi arabi come un’aspirazione espansionistica.

Ciononostante, le rassicurazioni israeliane non impediscono che, sul campo, la situazione rimanga molto tesa. La presenza di basi fortificate israeliane in territorio libanese e il divieto di qualsiasi ricostruzione nella zona confinante con la frontiera israeliana sono temuti come una forma di occupazione permanente, analoga a quella che Israele mantiene in territorio siriano. Inoltre, il bellicismo israeliano non conosce limiti. Come ha affermato di recente l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libano, Michel Issa, “negoziare è una cosa, continuare a bombardare il Libano è un’altra: agli occhi di Israele, l’una non impedisce l’altra”. Un doppio gioco di cui Hezbollah conosce bene gli effetti sul terreno, avendo perso circa 350 dei suoi uomini in attacchi con droni dalla cessazione delle ostilità nel novembre 2024. 

Sblocco umanitario

Tuttavia, secondo un ex ufficiale dell’esercito che ha chiesto di rimanere anonimo, Simon Karam potrebbe invocare il tempo necessario per rafforzare l’esercito libanese in termini di uomini e mezzi materiali, questione su cui Francia e Arabia Saudita devono immediatamente concentrarsi. Egli potrebbe anche invocare preventivamente, agli occhi di Tel Aviv, il rischio di “inutili perdite umane” tra le fila israeliane, a causa di un attacco suicida o di un’altra azione eclatante da parte di Hezbollah, tornato alla clandestinità e che beneficia di complicità sul terreno.

D’altra parte per il Libano, ricorda l’esperto, il ritorno della popolazione nel sud del Paese nei propri villaggi distrutti è una “linea rossa assoluta”, indipendentemente dai meriti della “zona economica” che Israele fa balenare agli occhi di un popolo spinto all’esodo. “Gli abitanti dei villaggi del sud - precisa la fonte - sono visceralmente legati alla loro ‘terra’, un concetto completamente diverso da quello più astratto e costituzionale di territorio”. Per il già sopracitato leader politico Bou Assi “l’idea stessa che i libanesi accettino di barattare la loro terra con fabbriche di nanotecnologia è una farsa”.

Il negoziatore libanese, conclude l’esperto, sarebbe quindi favorevole a un “disimpegno umanitario” strettamente supervisionato dall’esercito libanese e da una forza internazionale che sostituirebbe Unifil, la cui missione terminerà alla fine del 2026. A questo si andrebbe ad aggiungere una ricostruzione graduale, senza alcun coinvolgimento di attori vicini a Hezbollah nella logistica, in modo da escludere qualsiasi futura “sorpresa” militare. Il tutto in attesa di un disarmo totale della milizia filo-iraniana e di un inserimento puramente politico di Hezbollah all’interno del panorama libanese. All’orizzonte, un ritorno all’accordo di armistizio del 1949 e ai confini precisi stabiliti all’epoca, sulla base dell’accordo Paulet-Newcomb del 1923 tra Palestina e Libano. Un accordo di non belligeranza che sarebbe un prerequisito per una pace vera e propria, in attesa di un consenso in merito da parte della Lega Araba e dei sostenitori degli accordi di Abramo elaborati da Jared Kushner e dai suoi partner sauditi.

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