11/06/2022, 09.00
MONDO RUSSO
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Il Paese del risentimento

di Stefano Caprio

Max Scheler sosteneva che la migliore dimostrazione della cultura russa del risentimento sono gli eroi “umiliati e offesi” di Gogol, Dostoevskij e Tolstoj. Oggi i russi pensano di aver fatto la propria parte dopo la fine della guerra fredda, mentre “gli altri” ne hanno approfittato. Questa rabbia è esplosa in Ucraina facendo vedere a tutto il mondo quanto poco si è capito di un popolo non solo orgoglioso delle proprie tradizioni, ma in grado di smascherare le ipocrisie e le debolezze degli altri.

Hanno fatto scalpore le dichiarazioni recenti dell’ex-presidente russo Dmitrij Medvedev, che ha confessato di odiare gli occidentali perché sono dei “bastardi e degenerati, che vogliono la fine della Russia... finché sarò vivo, farò di tutto per farli sparire”. In Russia in realtà da tempo non si dà molto peso alle parole di Medvedev, in lotta da anni con forti dipendenze alcoliche, e anche la sua frase sui “cavalieri dell’Apocalisse che si stanno avvicinando” viene riletta come la sensazione dei “cavalieri dell’Alkoholiss”.

Rimane tuttavia lo sconcerto per la trasformazione di una delle figure più moderate della politica del ventennio putiniano, che esprime un profondo rancore nei confronti di un Occidente non ben definito. Medvedev, del resto, era stato dileggiato dalle inchieste di Naval’nyj, che ne aveva svelato la passione per il lusso sfrenato di stile quanto mai “occidentale”. La denuncia nei suoi confronti aveva dato vita alla campagna “delle Sneakers”, per lo scandalo delle sue abitudini di fare jogging ogni giorno con un nuovo paio di scarpe da ginnastica costose, che comprava compulsivamente su Amazon al ritmo di una ventina al mese. I giovani russi erano scesi in piazza scandendo lo slogan “Non è il nostro Dimon”, diminutivo infantile che fa da pendant a quello di “Vovan” rivolto al presidente Putin, suo protettore dai tempi dell’università.

Negli stessi giorni delle scalmane di Medvedev, ha provocato stupore l’improvvisa decisione del patriarca di Mosca Kirill, che ha sostituito il suo primo collaboratore, il metropolita Ilarion, esiliandolo alla sede estera di Budapest e mettendo al suo posto un suo fedelissimo, il giovane metropolita Antonij. Anche queste mosse piuttosto brusche di Kirill verso gli altri membri della gerarchia non sorprendono molto i russi, essendo una caratteristica da sempre del suo carattere impulsivo e della sua gestione autoritaria della macchina ecclesiastica. In questo caso, però, risuona di nuovo l’astio verso l’Occidente, che Ilarion cercava di blandire con le sue continue iniziative di dialogo e gli incontri con alti rappresentanti delle confessioni cristiane occidentali, come l’ultima visita proprio al cardinale ungherese Peter Erdo, che ricorre frequentemente anche tra i nomi dei papabili in un futuro conclave.

Ilarion aveva scansato in ogni modo le polemiche sul sostegno patriarcale alla guerra di Putin, che invece hanno caratterizzato il magistero di Kirill negli ultimi tre mesi, con la martellante accusa di intromissione degli occidentali nella vita dei fedeli ortodossi in Ucraina e nella stessa Russia, cercando di imporre una visione degenerata della morale e del cristianesimo stesso, ridotto al sostegno delle “parate gay”. In questo contesto la cacciata di Ilarion appare una ulteriore dimostrazione della capacità dei “veri russi” di difendersi dalle invasioni dei nemici della fede.

Eppure lo stesso Kirill, come l’ex-presidente “apocalittico”, ha un passato di grande familiarità con il mondo ecumenico al di fuori della Russia, in particolare con la Chiesa Cattolica, tanto da averlo egli stesso inculcato nel suo fedele servitore Ilarion, ora sostituito da un prelato ancora più fedele, Antonij, che lui stesso aveva insediato trentenne come vescovo a Roma e poi a Parigi, elevandolo alla dignità di metropolita russo per tutta l’Europa occidentale. Lo sconcerto è tale che alcuni commentatori ritengono che il trasferimento di Ilarion in un territorio dell’Unione europea, pur così filo-putiniano come l’Ungheria di Viktor Orban, sia in realtà una mossa astuta per avere un mediatore russo autorevole tra la Russia e l’Occidente, perché non si sa mai come tutto potrà andare a finire.

Al di là delle ipotesi e delle interpretazioni, rimane la domanda: da dove nasce questa ostilità profonda dei russi, almeno di quanti oggi stanno al potere, verso un mitologico Occidente da essi stessi tanti bramato e blandito per lunghi anni? Non si tratta di una reale “diversità orientale” o asiatica della Russia, pur nel contesto di una riproposizione dell’ideologia eurasiatica che descrive i russi come i discendenti degli Sciti, spauracchio del mondo civilizzato fin dai tempi dell’impero romano. La Russia non è la Cina o l’India, e nemmeno la Turchia, con le loro antiche civiltà e religioni, che ne fanno davvero un altro mondo rispetto all’Europa o all’America, che si afferma senza bisogno di urlare odio e risentimento. Tra l’Occidente “anglosassone” e la Cina “neo-confuciana” di Xi Jinping c’è una fortissima competizione economica e geopolitica, sperando che non degeneri anch’essa in un conflitto militare per la riconquista di Taiwan da parte di Pechino, eventualità per cui i russi stanno già affilando le armi, sognando di combattere l’Occidente da occidente. Ma Pechino si mostra superiore, rivendica una superiorità anche morale e culturale, senza il bisogno di abbassarsi alle isterie dell’odio russo.

Della Russia come il “Paese del risentimento” hanno parlato diversi intellettuali, come il filosofo Mikhail Jampolskij, il politologo Sergej Medvedev, il filologo Mikhail Edelštein o lo storico Ivan Kurilla, ricordati dall’ottima rubrica internazionale Signal del sito informativo Meduza, fortemente censurato all’interno della Russia. Secondo questi commenti, la Russia è oggi preda di un profondo sentimento di offesa, che è appunto il significato del francese ressentiment. Søren Kierkegaard lo definiva “il rancore dei mediocri verso chi osa elevarsi al di sopra delle masse”, come era lo stesso filosofo danese; per Friedrich Nietzsche era “l’odio dei servi verso i padroni”, a suo parere ispirato dallo stesso cristianesimo. In ogni caso, si tratta di un sentimento di invidia e ostilità verso colui che è in possesso di qualcosa che tu non avrai mai.

Un altro filosofo tedesco, Max Scheler, scrisse nel 1913 un testo sul risentimento come emozione politica, in cui riteneva che la disparità sociale genera inevitabilmente la rabbia delle “classi inferiori” nei confronti di quelle più elevate. A questo sentimento ogni tanto va data soddisfazione, sostiene Scheler, almeno a livello di discussioni politiche o campagne nell’opinione pubblica, facendo in modo che gli “elevati” concedano qualcosa, aumentando gli stipendi dei lavoratori o evitando di sfoggiare sempre le loro collane di brillanti. Se le grandi masse “dal basso” perderanno la speranza di poter ottenere qualcosa, l’invidia si trasformerà in risentimento, col rischio di travolgere ogni cosa. Secondo Scheler, la migliore dimostrazione della cultura russa del risentimento sono gli eroi “umiliati e offesi” di Gogol, Dostoevskij e Tolstoj.

Oggi il risentimento sembra davvero essere la caratteristica principale della Russia di Putin e di Kirill. Uno degli argomenti più usati dal presidente russo per giustificare la “necessaria operazione” in Ucraina è l’offesa per l’allargamento della Nato verso oriente: era stato promesso che non l’avrebbero mai fatto, e invece era un inganno, quindi una mancanza di rispetto. A partire dal famoso “discorso di Monaco” del 2007, Putin ha ripetutamente accusato l’Occidente di voler “insegnare ai russi la democrazia”, accusa che negli ultimi tempi si è evoluta in quella di “volerci imporre dei valori a noi estranei”.

Dal punto di vista di Putin e dei suoi gerarchi, il “primo mondo” non ha voluto riconoscere la Russia come parte di se stesso. Nessun presidente americano si sognerebbe di parlare dell’importanza della democrazia, ad esempio, al proprio collega francese o tedesco. “Loro” si sentono “i nostri”, mentre “noi” siamo per loro degli estranei, secondo la percezione dei russi, e tali siamo rimasti anche dopo la fine dell’Urss. Da qui la definizione ostile di “Occidente collettivo”, o ancora più spregiativo “gli anglosaksy”, che hanno “deciso di abbandonarci”. È una sensazione che unisce i rappresentanti della élite russa e di vasti gruppi sociali, compresi i membri ufficiali dell’Ortodossia, ostili nei confronti dell’ecumenismo che lascia la Chiesa russa ai margini ed esalta il primato costantinopolitano, sponsorizzato anch’esso dall’Occidente, e con il quale Mosca ha ormai reciso ogni legame.

I russi pensano di aver fatto la propria parte dopo la fine della guerra fredda, mentre “gli altri” ne hanno approfittato. Si ricorda lo slogan diffuso in Russia negli anni ‘90, quando ogni riforma veniva proposta per “vivere come in tutti gli Stati civilizzati”, perfino le ristrutturazioni delle case private venivano chiamate evroremont. Si intendeva allora il benessere materiale, il consumismo capitalista, ma anche quando la Russia aveva ormai raggiunto il livello “dei civilizzati”, ha continuato a sentirsi offesa e umiliata. Per vent’anni i presidenti russi hanno partecipato agli incontri del G8, sentendosi ospiti mal tollerati e comunque poco considerati.

Questa rabbia è esplosa in Ucraina, luogo ideale per dimostrare la capacità della Russia di rispondere alle offese, facendo vedere a tutto il mondo quanto poco si è capito di un popolo non solo orgoglioso delle proprie tradizioni, ma in grado di smascherare le ipocrisie e le debolezze degli altri. Per questo la “de-nazificazione” va di pari passo con la denuncia della “propaganda gay”, il titolo scelto per definire l'immoralità dei nemici. Non è odio contro gli ucraini, o contro gli ortodossi autocefali, e nemmeno contro i gay: è l’odio della Russia contro il mondo intero, è l’ora della grande rivincita.

 

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