04/06/2007, 00.00
CINA
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Il massacro di Tiananmen dura ancora oggi

di Han Dongfang
A diciotto anni dalla repressione del movimento anti-corruzione e pro-democrazia, Han Dongfang - fondatore del primo sindacato libero cinese - analizza l’attuale situazione dei diritti umani e civili nel Paese e lancia l’allarme: continuare a reprimere con il terrore il popolo porterà allo sgretolamento dell’intera società.
Hong Kong (AsiaNews) – La sanguinosa repressione del movimento anti-corruzione e pro-democrazia ordinata da Deng Xiaoping il 4 giugno del 1989 rende solo più evidenti i problemi della Cina attuale, piagata da corruzione e mancanza di democrazia.  Se il governo cinese non vuole perire sotto i colpi dei movimenti autonomi per i diritti civili e le sempre più frequenti proteste di massa della popolazione, deve cercare di sanare i danni creati dagli errori del passato.
 
A diciotto anni dal massacro di Tiananmen, è durissimo il giudizio sociale e politico sull’attuale leadership espresso da Han Dongfang, fondatore del primo sindacato libero in Cina ed attivista per i diritti civili della popolazione cinese. Han ha passato anni in prigione dopo i fatti di piazza Tiananmen. Ammalatosi, Pechino lo ha “liberato per ragioni mediche” (praticamente espulso) negli Stati Uniti. Al suo ritorno, le guardie di frontiera gli hanno ritirato il passaporto. Da apolide, ospitato ad Hong Kong, oggi dirige il China Labour Bulletin, con notizie sulla situazione dei lavoratori in Cina.
 
Nel suo commento in occasione dell’anniversario della repressione (che pubblichiamo integralmente) il sindacalista avverte il presidente Hu Jintao ed il primo ministro Wen Jiabao: per costruire una vera “società armonica” è necessario ritornare alle origini e tutelare prima di tutto i lavoratori ed i diritti umani della popolazione.
 
Sono passati diciotto anni dalla sanguinosa repressione del movimento pro-democrazia di piazza Tiananmen. Fra le immagini di quel periodo che sono rimaste più impresse nella memoria – a fianco delle terribili scene dei morti e feriti per le strade di Pechino, e quella del giovane che da solo affronta un carro armato – vi sono quelle di un fragile e tremante Deng Xiaoping, l’uomo che ha ordinato il massacro, in un messaggio televisivo trasmesso il 9 giugno ai soldati ed agli ufficiali dell’esercito di liberazione popolare.
 
Queste immagini trasmettono un altro lato di quel “grand’uomo”: una persona spaventata dalle tragiche conseguenze delle proprie azioni ed in disperata ricerca di assoluzione dalla storia. Sperando di poter lavare il sangue dalle sue mani e calmare la sua anima angosciata, Deng aveva bisogno di una spiegazione per quella repressione, una giustificazione per tutti quegli omicidi: il mantra che decise di adottare fu “la salvaguardia della stabilità sociale”.
 
Nel corso di questi ultimi diciotto anni, il governo cinese ha presentato lo spettacolare sviluppo economico del Paese come una giustificazione per il massacro del movimento anti-corruzione e pro-democrazia del 1989, sostenendo che la stabilità sociale è stata la chiave della crescita economica cinese. Questa logica difettosa ha puntellato l’accanita soppressione da parte delle autorità dei dissidenti politici, l’arresto degli attivisti sindacali e la persecuzione dei sostenitori dei diritti umani. Pratiche che continuano anche oggi.
 
Negli ultimi anni, tuttavia, l’uso di tattiche di terrore per mantenere una fragile facciata di stabilità sociale in Cina ha iniziato a fallire. A diciotto anni dalla repressione di quel movimento, che si opponeva alla corruzione, questa è divenuta la malattia incurabile che colpisce il cuore del Partito comunista cinese. Allo stesso tempo, la folle corsa dello sviluppo economico ha portato alla chiara e tangibile disintegrazione di ogni strato della società.
 
Come risultato, è fiorito un movimento autonomo per i diritti civili (wei quan), che ha iniziato a penetrare nelle città e nei villaggi di tutta la Cina. Troppi cittadini sono stati colpiti dal paradigma governativo che crea una crescita economica senza democrazia, ed un numero sempre maggiore di questi ha deciso di rispondere ai colpi, usando come armi lo stato di diritto e la legge.
 
La storia del successo economico della Cina post-Tiananmen ha colpito l’immaginazione del mondo intero; ma, nei fatti, è allo stesso modo spettacolare anche il divario crescente fra ricchi e poveri che si è acuito dal 1989. Un esempio di questo sistema può essere la riforma delle imprese statali, ed in particolare la creazione del loro circuito azionistico, che ha costretto i lavoratori a divenire azionisti delle aziende in cui lavoravano: senza questo passaggio, infatti, avrebbero perso la loro “ciotola di riso”.
 
Il problema è che anche chi non aveva risparmi è stato costretto ad entrare in questo schema, pur sapendo che era una trappola. Alla fine, la maggior parte di queste aziende riformate ha dichiarato bancarotta, ed i risparmi e le azioni accumulate dai lavoratori sono divenute, semplicemente, aria. In molti casi, inoltre, la bancarotta di queste aziende è nata dalla corruzione dei loro dirigenti, che si sono intascati i proventi.
 
Anche se i mormorii di protesta si sono sentiti in tutto il Paese, per molti anni i lavoratori cinesi non hanno osato dare voce apertamente al loro risentimento, in buona parte a causa del prolungato “effetto 4 giugno”, in pratica una spada perennemente pendente sulle loro teste. Ogni tentativo di organizzare proteste viene infatti definito “minaccia alla stabilità sociale” e si scontra con una dura repressione. Come risultato di questa politica, che ha eliminato ogni opposizione, le aziende privatizzate sono divenute gradualmente un feudo personale dei dirigenti, che ne hanno intascato proprietà e proventi.
 
In pratica, le politiche governative del post-Tiananmen sono divenute uno scudo protettivo per l’incontrastata privatizzazione dei beni pubblici di tutta la Cina. Negli anni fra il 1998 ed il 2004, oltre trenta milioni di lavoratori sono stati cacciati con la forza dalle nuove aziende private. Un’enorme quantità di questi lavoratori, e le loro famiglie, sono state gettati in uno stato di povertà permanente, mentre i corrotti funzionari statali e dirigenti d’industria sono divenuti multi-milionari.
 
La dura politica di repressione di Deng Xiaoping, adottata nel 1989, è stata un errore; cercare di giustificare omicidi e terrore politico in nome della stabilità è stato un altro errore; mantenere la repressione politica in cambio di una rapida crescita economica, per diciotto anni, è stato il terzo errore. Come risultato di questi errori, il governo cinese ha perso la splendida opportunità che si era presentata gli inizi degli anni ’80, ovvero iniziare delle riforme politiche e costruire un sistema democratico.
 
Due decenni dopo, mentre quella facciata di stabilità sociale inizia a cedere sotto il peso della crescente rabbia dei lavoratori e dei movimenti per i diritti civili, il Partito si rende conto che non ha più alcuna scelta, se non quella di riformare sin dalle fondamenta la sua abilità di governo e ri-esaminare la base fondante della sua legittimità.
 
Per questo motivo, per cercare di attenuare il crescente risentimento pubblico e fermare le proteste di massa che esplodono per tutta la Cina, i leader cinesi sono stati obbligati a spingere l’obiettivo di creare una “società armonica”. Eppure, è impossibile creare una società di questo tipo senza avere la fiducia e le fedeltà della popolazione. Ed il presidente Hu Jintao, insieme al primo ministro Wen Jiabao, non possono pretendere di ottenere questi fattori semplicemente desiderandoli, o applicando una repressione sociale: dovranno ottenerli raggiungerli in pratica quelle politiche “dirette al popolo” che dicono di voler attuare.
 
L’uomo che ha ordinato il massacro del 4 giugno è morto dieci anni fa, ed in Cina sono cambiate in maniera radicale sia la leadership che le politiche socio-economiche. Ma a livello politico, sono rimaste in vigore tutte quelle tattiche del terrore approvate anni fa, e persiste ancora “l’effetto 4 giugno”. L’attuale leadership cinese ora deve fare delle nuove scelte, e smettere di ripetere gli stessi errori del passato. Solo così potrà creare veramente una “società armonica” e ridare al Partito popolarità e legittimità.
 
I grandi errori del passato non possono essere cancellati, ma i leader attuali potrebbero, se hanno vera lungimiranza e giudizio politico, almeno iniziare a ripararne i danni. Fino a che questo non avviene, rimarrà aperta quella tenda sulla tragedia nazionale che è stata spalancata da ciò che è avvenuto a Pechino diciotto anni fa.
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