15/05/2018, 11.12
LIBANO - ITALIA
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Io, cristiano libanese, dove il perdono vince anche le violenze confessionali

di Dario Salvi

Jospeh Nohra, 59 anni, ha vissuto sulla propria pelle le ferite della guerra. Ma non ha voluto emigrare, scegliendo di testimoniare il bisogno di misericordia e riconciliazione. La presenza cristiana in Medio oriente è “fondamentale”. Il nuovo seminario all’interno di due edifici distrutti nel conflitto “segno della grazia di Dio”. 

 

Milano (AsiaNews) - “Misericordia, riconciliazione e perdono” sono le basi sulle quali costruire una convivenza non solo “fra cristiani e musulmani”, ma fra tutte le etnie, le razze e le confessioni che animano il Libano e il Medio oriente. Tensioni, litigi, incomprensioni “accadono anche fra noi fratelli cristiani”, ma ciò che permette di “riconciliarci e continuare a vivere insieme è l’esperienza del perdono”. È quanto racconta Joseph Nohra (nella foto, il primo da sinistra), cristiano maronita libanese, che ha sperimentato in prima persona le violenze della guerra nel Paese dei cedri. “La mia casa sorge poco distante la chiesa di san Michele, dove ha avuto inizio e dove si è scritta la parola fine al conflitto. Io stesso sono stato ferito da un proiettile, ma mi sono salvato”.

AsiaNews lo ha incontrato a Milano (Italia), in occasione del convegno “Marhaba – Dio è amore” promosso ai primi di maggio dalla Fondazione Ambrosiana San Marco. All’evento sono intervenuti circa 50 fra sacerdoti, studenti e laici legati al seminario Redemptoris Mater del Libano, ispirato al Cammino neocatecumenale fondato da Kiko Argűello.

Come ripeteva san Giovanni Paolo II, il Libano “è questa missione di pace e di convivenza” e “io stesso ho sperimentato odio e ferite, fisiche e psicologiche”. “Tuttavia, in un secondo momento - aggiunge - ho sentito il bisogno di andare loro incontro, partendo proprio da quella chiesa e da quella parrocchia in cui sono stato colpito. Mi sono detto che questo è il luogo in cui voglio vivere la fede e compiere la missione di testimonianza verso i musulmani che mi hanno colpito”.

Joseph ha 59 anni ed è originario di Beirut, capitale del Libano, dove vive assieme alla moglie Barbara e ai loro tre figli. Membro della Chiesa maronita, la comunità cristiana più importante del Paese dei cedri, egli è responsabile dei neocatecumenali della parrocchia di Shiah, membro del consiglio economico pastorale e presidente dell’associazione commercianti di quartiere. Ed è uno dei fautori del trasferimento del futuro seminario Redemptoris Mater a Shiah: un luogo di frontiera fra la città cristiana e quella musulmana, antica linea di divisione fra libanesi un tempo nemici.

“La presenza cristiana in Medio oriente - sottolinea - è fondamentale. Io sono cristiano, provengo da una famiglia cristiana che vuole vivere in pace e sicurezza nel proprio Paese. La partecipazione alla vita e alle attività della parrocchia hanno dato un senso profondo alla mia vita”. “Il Libano, come gli altri Paesi del Medio oriente, non ha bisogno solo di politica - avverte - ma necessita di persone di fede che abbiano sperimentato il valore della riconciliazione e del perdono”. 

“A causa della guerra - ricorda Joseph - volevo andarmene. Ma ho voluto ascoltare e credere alla parola di Dio, sperimentare la Sua presenza e la forza che deriva dall’appartenere alla Chiesa. Una fede rafforzata grazie all’incontro con i neocatecumenali e l’esperienza del cammino. Con i nostri gesti vogliamo essere esempio e testimonianza verso i nostri fratelli musulmani. Vogliamo mostrare che da un luogo di morte, può nascere un seme che porterà frutto nell’opera di evangelizzazione”.

Oggi il pensiero della fuga, della paura, è ormai alle spalle anche se le difficoltà non sono certo archiviate. “Qui, a Milano - conclude - mi sento come un pesce fuor d’acqua, perché sono lontano dal Libano, dalla mia terra, dal Medio oriente. Ogni volta che esco dai suoi confini ho paura: per questo non lo lascio mai per turismo, ma solo se viene chiesto da una missione di testimonianza. Certo, in Libano come in altre zone del Medio oriente ci sono famiglie cristiane che hanno paura di restare. La mia paura, invece, è proprio quella di dover abbandonare la mia terra”.

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