14/05/2024, 15.51
EDITORIALE
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Israele: l'isolamento non è indipendenza

di Giorgio Bernardelli

Il giorno che ricorda la nascita del moderno Stato di Israele nel contesto del dramma del 7 ottobre e della guerra a Gaza. Il rischio di una sconfitta politica più grave ancora di quella militare. La sfida di "compiere la propria parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente", come sta scritto nella Dichiarazione di indipendenza.

Israele sta vivendo nel segno del trauma sperimentato il 7 ottobre l’odierna Giornata dell’indipendenza, la festa nazionale che celebra la dichiarazione letta solennemente da David Ben Gurion il 14 maggio 1948, dando così inizio alla sua storia moderna. Sei mesi prima l’Assemblea generale dell’Onu aveva votato la risoluzione 181, che segnava la fine del mandato britannico in Palestina, prospettando l’orizzonte di “Stati arabi ed ebrei indipendenti”. Mentre il 15 maggio - il giorno dopo - gli eserciti dei Paesi arabi circostanti avrebbero attaccato l’appena costituito Stato di Israele, primo atto del conflitto che tutti conosciamo e che in questi sette mesi ha raggiunto nei kibbutz e poi a Gaza livelli di violenza mai visti, da cui ancora oggi si fatica a scorgere una possibile via d'uscita.

Israele celebra la sua indipendenza, come fa ogni Paese del mondo. Ma mai quanto in questa circostanza si trova di fronte alla domanda: un Paese può davvero contare solo sulla sua forza per salvaguardare la propria indipendenza? È un interrogativo che vale, evidentemente, per ogni nazione. Ma in Israele - dopo la Shoah - ha un significato ancora più forte. In un libro molto provocatorio qualche anno fa Avraham Burg - già speaker della Knesset (il parlamento israeliano) e segretario dell’Agenzia ebraica - parlava della necessità di “sconfiggere davvero Hitler”, indicando a Israele la strada della ridefinizione della sua identità collettiva, provando ad andare oltre una mera esaltazione nazionalista per recuperare invece quello sguardo universale che il sionismo delle origini aveva nel suo Dna.

Si tratta di una parabola opposta rispetto a quella percorsa da Israele negli ultimi vent’anni. L’aver portato al governo l’estrema destra nazionalista di Ben Gvir e Bezalel Smotrich - gli eredi del Kach, il movimento che nel 1994 Yitzhak Rabin definiva “una vergogna per il sionismo” - ha significato per Benjamin Netanyahu chiudere il cerchio della teorizzazione di uno Stato ebraico disposto ad andare “contro tutto e contro tutti”, pur di affermare una sola identità. E il terrorismo omicida di Hamas non sta facendo altro che accelerare questa corsa. Con il risultato dello scenario di oggi, che vede Israele in un isolamento senza precedenti nella comunità internazionale, con persino il grande alleato a Washington titubante nel suo sostegno.

Ogni giorno che passa appare più chiaro che l’esito della guerra in corso non sarà militare ma politico. E continuando a fare affidamento solo sulla sua forza, Israele accentua la sua crisi, rischiando di perdere tutto ciò che ha costruito in questi 76 anni. Non a caso - mentre in passato i conflitti avevano sempre compattato Israele - questa volta il Paese è profondamente diviso, come mostrano le manifestazioni di piazza con in prima fila i parenti degli ostaggi nelle mani di Hamas.

Limitarsi a ripetere come un mantra il diritto a “difendersi”, oggi per Israele non è una manifestazione di indipendenza ma una strada verso il precipizio. Molti Paesi hanno dimostrato di essere disposti a difendere Israele; persino alcuni Stati arabi lo hanno fatto nella notte dell’attacco dei droni e dei missili di Teheran. Ma potrà succedere ancora solo dentro l’orizzonte di quella stessa comunità internazionale che oggi chiede a Israele un'assunzione di responsabilità rispetto all’irrisolta questione palestinese, come accaduto la scorsa settimana all'Assemblea generale dell'Onu. Non è un "premio" al terrorismo, ma la sola strada per sconfiggere davvero Hamas e sradicare l'antisemitismo che è tornato a dilagare.

“Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra. Lo Stato d'Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero”. Nella loro Dichiarazione di indipendenza i padri fondatori dello Stato di Israele questo scrivevano nel 1948. E lo facevano ben consapevoli del conflitto che stava per esplodere, offrendo comunque una indicazione anche per il futuro. Forse sarebbe tempo che chi ha a cuore le sorti di Israele avesse il coraggio di ripartire da qui.

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