03/04/2006, 00.00
iraq
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Jill Carroll, la verità è che ero minacciata e maltrattata

La giornalista americana nega quanto ha dichiarato al momento del suo rilascio. E' il timore  dei sequestratori che spinge gli ostaggi a partecipare ai video propagandistici dei terroristi. Nei sequestri si intrecciano delinquenza comune e terrorismo.

Baghdad (AsiaNews/Agenzie) - Non era vero niente: "mi hanno trattato bene" e "non mi hanno minacciata" aveva detto la giornalista Jill Carroll al momento della sua liberazione, a Baghdad, ma la realtà era all'opposto. La Carroll era intimorita e minacciata. "Il fatto è che si vive in uno schiacciante senso di impotenza, con la consapevolezza che il futuro dipende da coloro che ti hanno sequestrato", come ha raccontato Phil Sands, un giornalista inglese freelance, che fa parte del piccolo gruppo di fortunati sopravvissuti ad un rapimento.

I sequestri in Iraq sono infatti divenuti una pratica frequente, della quale si parla solo se coinvolgono gli stranieri e in particolar modo gli occidentali. Ma ad essere rapiti sono per lo più gli iracheni. I motivi, economici, ma non solo. Se ne fa uso anche come forma di persecuzione contro i cristiani. Come ha raccontato ad AsiaNews un giovane impegnato nelle attività della chiesa dello Spirito Santo a Mosul, "nella nostra parrocchia continuano i rapimenti dei cristiani, dobbiamo pagare ingenti riscatti, in molti scelgono di fuggire".

"Avevo sempre presente – ha raccontato Phil Sands, rapito il 26 dicembre 2005 e liberato dai soldati americani cinque giorni dopo - la possibilità di fare la stessa fine che avevo visto negli orribili video di altri ostaggi. Vedevo me stesso apparire nel prossimo, successore di quanto era accaduto a Kenneth Bigley". Che era stato decapitato.

E' il clima nel quale sono maturate le prime dichiarazioni della Carroll, rapita il 7 gennaio da un commando che aveva ucciso il suo interprete, e liberata il 30 marzo, dopo 82 giorni di prigionia. I suoi rapitori avevano più volte minacciato di ucciderla se non fossero state rilasciate tutte le detenute irachene. Tornata libera, "mi hanno trattata bene", ha raccontato in un'intervista trasmessa dalla tv di Baghdad. "Sono solo felice di essere libera, - ha aggiunto - il mio unico desiderio è stare con la mia famiglia". Nell'intervista  chiedeva al presidente Bush di ritirarsi dall'Iraq. "Decine di migliaia di persone hanno perso la vita a causa dell'occupazione" e "i rivoltosi stanno solo tentando di difendere il loro Paese", di "fermare un illegale, pericolosa e fatale occupazione".

Ma poi, rientrata negli Usa, dopo aver affermato di non aver voluto collaborare con le autorità militari del suo Paese, ha raccontato una storia diversa. "Mi hanno costretto a partecipare ad un video di propaganda: mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se avessi cooperato. Vivevo in un ambiente minaccioso, sotto il loro controllo e volevo andar via viva. Ho accettato".  E poi "ho detto che non ero minacciata. In realtà ero sotto minaccia in ogni momento". "In ogni caso, nel timore di una reazione dei miei rapitori, non parlavo liberamente". "Fatemi dire chiaramente – ha aggiunto - io aborro coloro che sequestrano o uccidono civili ed i miei rapitori sono chiaramente colpevoli di entrambi i crimini". Ha precisato ancora che non poteva parlare liberamente durante l'intervista, fatta immediatamente dopo il suo rilascio, al quartier generale dell' Iraqi Islamic Party (sunnita), nella quale affermava che era veramente importante che la gente sapesse che era stata trattata bene dai suoi rapitori. "Il partito mi aveva promesso che l'intervista non sarebbe stata mandata in onda in televisione e hanno mancato alla loro parola".

"Il mio istinto di sopravvivenza – aveva raccontato recentemente Sands - era forte e cominciò così uno strano processo di fare una alleanza con i miei rapitori, un tentativo di riprendere un qualche controllo da coloro che me lo avevano sottratto. Avrei dovuto riconoscere questo come la sindrome di Stoccolma, ma al momento non c'era altro che cieco istinto". Il giornalista ha raccontato l'interrogatorio, fattogli da un uomo che parlava "un buon inglese", ma nella stessa stanzetta buia nella quale c'erano due uomini armati. "Lo sentivo come un test, con la mia vita che dipendeva da ogni risposta". Gli facevano domande sui suoi rapporti con gli occupanti, sull'islam, su per cosa pensavo stessero combattendo, su Saddam e Bin Laden. Nella stanza accanto, sono stati trovati la tuta arancione dei condannati a morte e una spada.

Sequestri diversi nei quali si intrecciano delinquenza comune e terrorismo. Ma per le vittime non fa differenza.

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