14/10/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La Russia tra Israele e Palestina

di Stefano Caprio

La “guerra mondiale a pezzi” evocata per anni da papa Francesco si sta effettivamente sviluppando in modalità sempre più globale, e la Russia vede in questo il realizzarsi della sua “missione” nel contestare il dominio dell’Occidente “collettivo”. E tornano alla mente le parole di Solženitsyn sul rapporto tormentato tra russi ed ebrei.

La Russia non ha condannato in modo diretto e inequivocabile le azioni dei terroristi di Hamas, che con l’attacco improvviso del 7 ottobre hanno dato inizio al tremendo conflitto di questi giorni tra Israele e Gaza, con migliaia di morti da entrambe le parti e massacri tali da far scolorire anche gli orrori di Buča e Mariupol. Soltanto due giorni dopo l’inizio del conflitto, il ministro degli esteri Sergej Lavrov ha dichiarato che “lo scontro armato palestino-israeliano va assolutamente fermato, bisogna risolvere il problema con le autorità civili, che sono anch’esse vittime della situazione”, e in particolare “ponendo l’attenzione sulle ragioni del conflitto”, alludendo alla necessità di riconoscere lo Stato palestinese.

Dalle varie dichiarazioni di questi giorni convulsi traspare comunque una malcelata soddisfazione dei russi più “belligeranti”, per uno spostamento dell’attenzione dalla guerra in Ucraina che obbliga l’Occidente a fare scelte drammatiche, compresa quella di mettere in secondo piano il sostegno all’Ucraina stessa. Al di là delle ipotesi complottiste che vedono la mano di Mosca dietro le azioni dei terroristi palestinesi, vale per tutti la dichiarazione dell’esagitato ex-presidente russo Dmitrij Medvedev: “e allora, amici della Nato, avete finito di giocare!”.

Non è del resto difficile comprendere quanto sia vantaggioso per la Russia il moltiplicarsi delle guerre da tutte le parti del mondo, da quelle che la vedono più coinvolta come nel Caucaso a quelle in Asia e Medio Oriente, o in Africa dove i russi sono molto attivi, e quasi stupisce che ancora non si siano riattivati i conflitti in Sudamerica, magari l’eterna contesa delle foreste amazzoniche tra Perù ed Ecuador, in attesa dell’invasione di Taiwan da parte della Cina. La “guerra mondiale a pezzi” evocata per anni da papa Francesco si sta effettivamente sviluppando in modalità sempre più globale, e la Russia vede in questo il realizzarsi della sua “missione” nel contestare il dominio dell’Occidente “collettivo”.

La propaganda di Stato in Russia, sia da parte dei politici sia degli agitatori dei media, ribadisce che qualunque conflitto è di aiuto alla Russia, a volte senza nemmeno il pudore di nasconderlo dietro dichiarazioni apparentemente neutrali. Tigran Keosayan, uno dei conduttori del canale Ntv, lo ha ripetuto più volte, e un altro dei principali “tromboni” televisivi, Vladimir Solov’ev, ha esplicitamente accusato su Russia-1 la Ue e gli Usa di essere colpevoli dell’escalation del conflitto israelo-palestinese, aggiungendo che “io sono ebreo, ma non israelitiano, non appoggio Israele”. La direttrice del canale Russia Today, Margarita Simonyan, ha osservato che “un Paese che non fa la guerra ai suoi vicini, sta facendo la guerra ai suoi vicini, ora dobbiamo aspettarci l’esodo dei pacifisti russi da Israele… anzi, è meglio che non lo aspettiamo, che se ne vadano in Paesi ancora più lontani”. L’allusione è ai tanti russi rifugiati in Israele criticando la guerra in Ucraina e che ora cercano di tornare a casa, come il miliardario Mikhail Friedman di Alfa-Bank, che rischia l’incriminazione per alto tradimento, avendo dato soldi agli ucraini.

Perfino sul sito del Consiglio russo per la politica estera e la difesa è apparsa un commento dal titolo “Ogni guerra oggi è a favore della Russia”, in cui si spiega che le guerre ormai sono una cosa normale, bisogna farci l’abitudine: “Guardate, tutti sono in guerra: l’Azerbaigian ha aggredito l’Armenia e ha conquistato il Karabakh, Hamas si è scagliato contro Israele, e la Russia risolve i suoi problemi in Ucraina”. Questa “normalizzazione della guerra” non è quindi solo una mania dei russi, è una dimensione del mondo intero, “siamo entrati nell’epoca dell’instabilità e dobbiamo farci l’abitudine”, si specifica sul sito non senza un certo compiacimento. Abituarsi alla guerra vuol dire anche rendersi conto che non ci saranno rapide soluzioni dei conflitti, la guerra ci accompagnerà per molti anni, ci assicurano i russi: “non finirà domani, e neanche tra un anno… ahi ahi, gli uomini combattono, ormai sarà sempre così”.

Non deve stupire la sfacciataggine con cui sempre più i russi si vantano del conflitto globale, di cui si sentono i veri ispiratori: ormai non c’è più nulla di cui vergognarsi, si è andati troppo oltre. La Russia comunica soltanto con un gruppo ristretto di Paesi alleati e “amichevoli”, ai margini della comunità internazionale e con regimi apertamente autoritari e aggressivi, come l’Iran e la Corea del nord, quindi non ha più niente da perdere a livello di reputazione. La popolazione russa, per sua abitudine, non contesta “la dirigenza”, e di fronte a tutto questo sprofonda sempre più nell’indifferenza e nell’apatia, tanto che ormai da più parti si suggerisce di semplificare le prossime elezioni presidenziali senza neanche andare a votare, e limitandosi all’acclamazione dello zar. La gente in Russia sa bene che prevale la propaganda sulla realtà, sia all’interno sia all’esterno del Paese, e quindi non vale la pena di credere a nessuno e non “prendersela in testa”, nie brat v golovu, per evitare di farsela mozzare.

Uno dei commentatori più espliciti è l’ideologo del putinismo estremo, il filosofo Aleksandr Dugin, secondo cui “Israele è un vassallo degli Usa e non ha sostenuto la Russia durante l’operazione militare speciale, nonostante la nostra sia una guerra contro i nazisti banderovstsy ucraini [seguaci di Stepan Bandera, collaborazionista degli anni Trenta], che sono colpevoli di aver partecipato all’Olocausto degli ebrei”. Il profeta dell’eurasismo spiega che “qualunque siano le nostre opinioni su ebrei e musulmani, è una questione di principio: l’Iran è nostro amico, alleato e fratello, ci ha sostenuto nel momento più difficile, mentre Israele no”. A suo parere “ora diventa più comprensibile anche la logica di Stalin: egli era a favore di Israele finché Israele stava dalla nostra parte, e poi si è messo contro”.

Dugin paventa che l’escalation in Israele possa portare alla conseguenza di una reazione collettiva del mondo arabo, visto che “i palestinesi in questa guerra non hanno alcuna chance, non possono distruggere Israele e neanche infliggergli una sconfitta”. Del resto anche Israele ha poche speranze di riconquistare i territori palestinesi, che stanno all’interno dei suoi confini, né può sterminare fisicamente tutti i cittadini palestinesi. Si attende dunque la reazione dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita, degli altri Stati del Golfo e dell’Egitto, guarda caso tutti più o meno allineati con la Russia. Per questo, conclude l’ideologo, “nel conflitto israeliano-palestinese per la Russia è difficile scegliere da che parte stare, dobbiamo fare molta attenzione al corso degli avvenimenti”, consapevoli che “la multipolarità si sta rafforzando, mentre l’intensità dell’egemonia dell’Occidente collettivo si indebolisce”.

Al di là delle strategie politiche e militari, in Russia riemerge comunque un sentimento antisemita piuttosto radicato, che ha conosciuto varie fasi nella storia passata più antica e recente. Gli ebrei perseguitati in tutta Europa hanno percorso l’itinerario dall’Atlantico fino alle coste del mar Nero tra Russia e Ucraina, in quella zona chiamata la Novorossija, “nuova Russia” in cui furono cacciati per staccarli dai mercati bielorussi, e che costituisce una parte della Malorossija, la “piccola Russia” come viene chiamata l’Ucraina, proprio le terre dell’attuale conflitto “speciale”. C’è quindi un senso contraddittorio di parentela tra russi e israeliani, alimentato da flussi di emigrazione da Mosca a Tel Aviv anche ai tempi sovietici, che fanno di Israele uno dei Paesi più russofoni del mondo, una particolare espressione del “mondo russo”. I padri fondatori dell’Israele moderno, da Ben Gurion a Netanyahu, provengono da famiglie in cui si parla polacco, russo o ucraino, e il russo è familiare perfino ai tassisti arabi di Gerusalemme.

L’ultima fatica letteraria del grande dissidente sovietico e scrittore Aleksandr Solženitsyn, pubblicata nel 2001 pochi anni prima della morte, si intitolava “Duecento anni insieme”, la convivenza tra russi ed ebrei, da lui descritta in due fasi, 1795-1916 e poi negli anni sovietici, 1917-1995. Come egli scriveva nella prefazione, “ho cercato a lungo qualcuno che spiegasse diffusamente e in modo equilibrato questo rapporto così rovente, ma mi sono sempre imbattuto in pareri unilaterali: da una parte la colpa dei russi davanti agli ebrei, con tutte le contumelie contro la degradazione del popolo russo, dall’altra le colpe degli ebrei verso i russi; tutte e due espresse in modo passionale e indiretto, senza nemmeno cercare di vedere che cosa deve essere attribuito agli uni e agli altri come merito”.

Molti accusarono lo stesso Solženitsyn di antisemitismo, e di essersi infilato in un argomento storico molto buio, lontano dalle sue grandi visioni della “Ruota Rossa” in cui aveva cercato di spiegare le ragioni profonde della rivoluzione e dei cambiamenti epocali del Novecento. L’autore di Arcipelago Gulag era certamente poco allineato con i pensieri dominanti di Oriente e Occidente, ma era spesso profetico nelle sue visioni: oggi siamo di nuovo davanti al dilemma, dopo “secoli insieme” e decenni di illusioni, e torniamo alla divisione e alla guerra, di cui non si riescono a comprendere le ragioni.

 

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