09/04/2022, 10.00
MONDO RUSSO
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La cultura russa dal sottosuolo alla speranza

di Stefano Caprio

In una novella di Dostoevskij del 1864 un funzionario imperiale di bassa statura siede nel seminterrato della sua casa, offeso con il mondo intero e desideroso di vendetta. In "Guerra e Pace" di Tolstoij - di fronte alla litania bellica del prete Nataša - "pregava Dio affinché perdonasse tutti e lei con loro". Due volti per dire come la cultura russa, oggi vittima del dilagare di propaganda e ideologia, sarebbe preziosa per comprendere davvero quanto sta accadendo in questa guerra.

Una delle conseguenze più dolorose della guerra in Ucraina, oltre alle tragedie e alle tante morti sul campo, alle distruzioni e alla rovina economica, è la notte della cultura. A parte la “cultura” militare e geopolitica, che sembrava una lontana eco dell’epoca degli imperi e delle guerre mondiali, oggi nel mondo c’è sempre meno posto per la cultura vera e propria: l’arte e la musica, la letteratura e la poesia non soltanto vengono trascurate a favore delle discussioni sulla diplomazia e sulle riconversioni energetiche, ma vengono spesso accusate di faziosità e pubblica indecenza. La crisi della cultura al tempo della guerra è da sempre un effetto della contesa tra le parti, che necessita di armi della propaganda e di maschere dell’ideologia, e oggi questo si sparge, per la prima volta a questi livelli, nel mare dell’informazione globale, in cui basta un accenno o un titolo sbagliato per scatenare una campagna mondiale di condanne o esaltazioni. In questo mare, soprattutto, si sta dissolvendo uno dei patrimoni dello spirito dell’umanità intera: la cultura russa.

L’attacco principale viene dall’interno, dalla censura putiniana che rimanda ai tempi di Stalin, quando bastava un refuso nelle pubblicazioni per condannare intere redazioni e categorie di autori. Dopo la rivoluzione d’ottobre, e la guerra civile tra bianchi e rossi del 1918-1921, i bolscevichi decisero di liberarsi in un sol colpo di tutta la cultura della Russia precedente: giusto cento anni fa, all’inizio di aprile del 1922, vennero imbarcati sulla famosa “nave dei filosofi” oltre trecento tra i maggiori intellettuali del Paese. Pensatori come Nikolaj Berdjaev, Semen Frank, Nikolaj Losskij, Lev Šestov, Sergej Bulgakov e molti altri furono costretti a lasciare il proprio Paese, e iniziarono a diffondere nel mondo occidentale le visioni straordinarie della tradizione russa. Oggi non c’è una nave in grado di riportare in salvo una cultura che stava ricostituendosi lentamente, dopo quasi un secolo di censura sovietica. Il nuovo bavaglio non soltanto impedisce l’espressione di giornalisti e scrittori di oggi, ma forma un vuoto pneumatico anche nei confronti dei classici della grande cultura, che vengono usati come bandiere ideologiche all’interno, o denunciati come portatori d’infezione all’esterno. Non soltanto vengono sottoposti a revisione ideologica i ballerini e i cantanti, che sospendono le esibizioni programmate da prima della “operazione militare speciale” in Ucraina, ma perfino le interpretazioni e le presentazioni accademiche delle opere di Dostoevskij e Tolstoj diventano un fronte di guerra che obbliga a schierarsi a favore o contro i romanzi e le poesie.

E dire che proprio i classici russi sarebbero quanto mai necessari in questi giorni, per comprendere le motivazioni e le contraddizioni della politica, della guerra e della religione, che i russi hanno sempre vissuto sulla frontiera tra morte e rinascita, sogni universali e rivendicazioni locali, revisioni dogmatiche e proclami rivoluzionari. Anche solo a rileggere i due sommi rappresentanti dell’anima slavofila, come Fëdor Dostoevskij, e dell’aspirazione universale come Lev Tolstoj, vediamo riprodursi sui territori dell’Ucraina le minacce dei Demoni e le contraddizioni tra Guerra e Pace, citando due dei maggiori romanzi dei maestri russi.

La cultura russa riflette proprio questa tensione continua tra due poli, come nel grande dibattito ottocentesco tra slavofili e occidentalisti. Non si tratta soltanto di particolarità di una cultura nazionale, ma di un confronto tra due anime dell’Europa intera, considerando le tante influenze tedesche, francesi, italiane e altre ancora nel prisma della Russia di ieri e di oggi. Il filosofo russo Sergej Medvedev ha ricordato in questi giorni il caso dello scrittore ceco Milan Kundera, che dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia nel 1968 rimase senza lavoro, e gli fu proposto di scrivere una sceneggiatura teatrale dell’Idiota di Dostoevskij. Kundera ci pensò a lungo, per concludere che “il mondo di Dostoevskij e dei suoi gesti irrazionali, delle sue torbide profondità e aggressività sentimentali mi lasciava attonito”. Lo scrittore accostava queste sensazioni a una conversazione per strada con un ufficiale sovietico, che spiegava l’arrivo dei carri armati russi con l’assicurazione “è perché vi amiamo, e vogliamo salvarvi da voi stessi”, come oggi affermano i dirigenti russi nei confronti dell’Ucraina.

La storia si ripete, e per spiegare l’invasione russa Medvedev ritorna proprio a Dostoevskij: non all’Idiota, ma agli Appunti dal Sottosuolo, una novella scritta nel 1864, subito prima della stesura dei grandi romanzi-capolavoro dello scrittore slavofilo, che Nabokov chiamava “la quintessenza del pensiero di Dostoevskij”. Un funzionario imperiale di bassa statura e di debole carattere siede nel seminterrato della sua casa, offeso con il mondo intero e desideroso di vendetta: è la profezia di Vladimir Putin, che vive ormai da anni in un bunker e ha covato il desiderio di mostrare al mondo intero come la Russia possa rifarsi delle umiliazioni subite. Il personaggio del “nevrotico del risentimento” è stato commentato da tutti i grandi filosofi europei moderni, da Nietzsche a Scheler fino a Sartre e a Camus: in un dialogo immaginario tra sé stesso e il resto del mondo, l’anonimo protagonista del Sottosuolo rimembra i suoi traumi infantili e familiari, l’emarginazione e la mancanza di amici, e anche le offese della vita adulta, con gli scontri e le risse che lo hanno condotto alla filosofia irrazionale della volontà individuale contro tutti.

L’eroe di Dostoevskij rifiuta tutti i progetti di convivenza umana della società moderna, che egli vede incarnati nel “Palazzo di Cristallo” del padiglione delle esposizioni di Hide Park durante l’Esposizione universale del 1851; sogna di riuscire un giorno a distruggerlo. L’uomo del Sottosuolo fece da apripista per le grandi figure simboliche dostoevskiane, dal Raskol’nikov di Delitto e Castigo allo Smerdjakov dei Fratelli Karamazov, o al terrorista dei Demoni Petr Verkhovenskij: uomini rifiutati, “umiliati e offesi” che cercano vendetta come il Putin del 2022. Anche lui è originario di San Pietroburgo, come i personaggi di Dostoevskij, cresciuto per strada da famiglia povera che ha fatto carriera nei meandri della burocrazia sovietica, e oggi siede – secondo le voci – in un rifugio anti-atomico dalle parti degli Urali.

Sentiamo direttamente la descrizione di Dostoevskij: «Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori».

Il nevrotico del Sottosuolo non sa come darsi pace: «ma io, per esempio, come posso tranquillizzarmi? Dove sono per me le cause prime a cui appoggiarmi, dove le fondamenta? Dove andrò a prenderle? Ricordate: poco sopra ho parlato della vendetta. (Probabilmente non ci avete riflettuto). Ho detto: l’uomo si vendica perché vede in questo la giustizia. Dunque, ha trovato la causa prima, ha trovato il fondamento, ovverosia la giustizia. Quindi è tranquillo da tutti i lati, e di conseguenza si vendica tranquillamente ed efficacemente, essendo convinto di fare una cosa onesta e giusta. Mentre io qui di giustizia non ne vedo, e anche di virtù non ce ne trovo alcuna, e di conseguenza, se mi metterò a vendicarmi, sarà forse soltanto per cattiveria. Ma guardatevi attorno: il sangue scorre a fiumi, e oltretutto in maniera così allegra, come fosse champagne».

Il grande stabile di vetro è il simbolo dell’odierna globalizzazione: «Voi credete nell’edificio di cristallo eternamente incorruttibile, cioè tale che non gli si possa far la linguaccia di nascosto, né un gestaccio con la mano in tasca. Ebbene, io invece, forse, ho paura di questo edificio proprio perché è di cristallo ed eternamente incorruttibile e perché non gli si potrà far la linguaccia neppure di nascosto. Non prenderò per il coronamento dei miei desideri un casermone di appartamenti per inquilini poveri, con contratto per mille anni e con il dentista Wagenheim sull’insegna, per ogni evenienza. Annullate i miei desideri, cancellate i miei ideali, mostratemi qualcosa di meglio, e io vi seguirò. Voi, magari, direte che non ne vale neppure la pena; ma in tal caso anch’io posso rispondervi lo stesso. Stiamo ragionando seriamente; e se non volete degnarmi della vostra attenzione, non starò a pregarvi. Io ho il sottosuolo».

L’altro grande profeta dell’anima russa, Lev Tolstoj, scrisse Guerra e Pace come esito della riflessione sugli orrori della guerra di Crimea, che egli visse da giovane ufficiale nel 1855, provando la bruciante umiliazione dell’assedio di Sebastopoli da parte di tutte le armate europee, comprese quelle del regno di Savoia. Nel romanzo lo scrittore inserisce momenti liturgici della Chiesa Ortodossa, da lui considerata uno strumento del potere che negava l’essenza stessa del cristianesimo, altro tema estremamente attuale. Una delle protagoniste del romanzo è la giovane aristocratica Nataša Rostova, una tredicenne innamorata degli eroi militari della guerra russa contro Napoleone. A un certo punto la ragazza partecipa a una liturgia dove si prega per il buon esito della guerra:

«”Signore Iddio degli eserciti, Dio della nostra salvezza”, cominciò a dire il prete con quella voce chiara, senza enfasi e mite con cui recitano solamente i lettori ecclesiastici di lingua slava e che produce un effetto ineffabile sul cuore russo. “Signore Iddio degli eserciti, Dio della nostra salvezza! Guarda con clemenza e generosità l'umile popolo Tuo, e benigno ascoltaci, abbi pietà e misericordia di noi. Il nemico sconvolge la Tua terra, vuole farne un immenso deserto, e si leva pertanto contro di noi; uomini senza legge si sono radunati per distruggere il Tuo dominio, rovinare la Tua pura Gerusalemme, la Tua amata Russia; vuole insozzare i Tuoi templi, abbattere gli altari e profanare il nostro santuario: Fino a quando, o Signore, fino a quando i peccatori saranno esaltati? Fino a quando potranno esercitare il loro delittuoso potere? Signore Iddio! Ascolta la nostra supplica: rafforza con la Tua possanza il nostro autocrate, il grande sovrano nostro, l'imperatore Aleksandr Pavlovič; ricorda la sua giustizia e la sua mitezza, ricompensalo per la sua bontà, e conservala anche a noi, che siamo il Tuo amato Israele”».

La litania bellica, simile a quelle odierne del patriarca Kirill, continua a lungo su questi toni, e «nello stato d'animo in cui si trovava Nataša, questa preghiera produsse in lei una forte impressione. Ascoltava ognuna di quelle parole sulla vittoria di Mosè su Amalech, di Gedeone su Madiam, di David su Golia, sulla distruzione di Gerusalemme, e pregava Dio con quella dolcezza, quel tenero struggimento di cui era ricolmo il suo cuore; ma non si ricordava bene che cos'avesse chiesto a Dio in quella sua preghiera. Partecipava con tutta l'anima all'invocazione di uno spirito giusto, d'un rafforzamento del cuore in virtù della fede e della speranza, invocava per tutti un affetto d'amore. Ma non poteva pregare affinché i nemici venissero spezzati sotto i piedi, quando poc'anzi aveva desiderato averne di più per poterli amare e pregare per loro. Né per altro verso poteva dubitare della giustezza della preghiera genuflessa che era stata appena recitata. Sentiva la propria anima pervasa da un devoto e tremante timore del castigo che colpisce gli uomini a causa dei loro peccati, e in particolare per i propri peccati, e pregava Dio affinché perdonasse tutti, e lei con loro; e desse a loro tutti, e anche a lei, quiete e serenità in questa vita terrena. E le parve che Dio ascoltasse la sua preghiera».

Il desiderio della misericordia nell’animo di Nataša, metafora della Russia sconvolta e divisa in sé stessa, spinse Tolstoj a elaborare un’intera teoria della non-violenza, o non-resistenza al male, per non cedere agli istinti della reciproca distruzione. Il giovane Gandhi lesse queste idee nel testo tolstoiano Il Regno di Dio è in voi, quando era in Sud Africa nel 1894. Scriverà più tardi: «A quel tempo credevo nella violenza, la lettura del libro mi guarì dallo scetticismo e fece di me un fermo seguace dell'ahimsa», la filosofia religiosa che ispirò la liberazione dell’India dal dominio britannico. Gandhi fece uno studio intenso dei libri di Tolstoj, e gli scrisse quattro volte, fra il 1909 e il 1910, definendosi «Vostro umile seguace». Forse non conviene censurare la cultura russa, anzi vale la pena di rileggerla con più attenzione, in questi giorni drammatici.

 

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