24/02/2024, 09.00
MONDO RUSSSO
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La morte di Navalnyj e il trionfo della propaganda

di Stefano Caprio

La smania di inserirsi nelle lotte per il potere in tutto il mondo non è soltanto una propensione personale di Putin, ma in qualche modo un carattere tipico della natura russa, sempre bisognosa di trovare altrove la conferma della sua stessa esistenza, per non disperdersi tra i boschi e le steppe del suo territorio smisurato.

Il secondo anniversario dell’invasione dell’Ucraina viene celebrato da Vladimir Putin con la mossa propagandistica più radicale e definitiva, quella dell’azzeramento di ogni forma di opposizione. Con la morte in lager di Aleksej Naval’nyj, l’unico vero avversario degli ultimi vent’anni, si è inaugurato il mese della campagna elettorale per la quinta rielezione del 17 marzo, da cui è stato opportunamente eliminato anche l’unico candidato non allineato, Boris Nadeždin. Entrambe le rimozioni erano ampiamente previste e non necessarie per la buona riuscita del trionfo della dittatura, ampiamente consolidata fin dalla seconda-terza rielezione dello zar, ma appaiono decisamente utili all’unica Vittoria che interessa al Putin collettivo, quella della Grande Guerra del Mondo russo.

La guerra mondiale elettorale del 2024 si era palesata già il 13 gennaio a Taiwan, segnando un punto contro gli storici nemici della Cina continentale. Il 7 febbraio l’Azerbaigian ha invece aperto la serie delle ri-elezioni farsa dei tiranni, con il quinto mandato di Ilham Aliev al 92% delle preferenze, un rito esplicitamente legato alla vittoria sul campo, la riconquista del Nagorno Karabakh a spese degli armeni. A seguire, il 25 febbraio, si ha ora la rielezione scontata di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, che per sicurezza ha fatto sequestrare tutti i beni dei suoi avversari di quattro anni fa, ormai in prigione o all’estero, mettendo all’asta le loro case, vedi mai qualcuno pensi di tornarci. I due leader post-neo-sovietici del resto sono soltanto i valletti che aprono le tende del palco regale dello zar Putin, che raggiungerà il quarto di secolo senza appunto doversi confrontare con avversari neanche di facciata, visto che al povero Nadeždin hanno contestato le firme delle registrazioni, in quanto scritte con calligrafia indegna, e accompagnate da pronostici ancor più vergognosi, quasi volesse prendersi il 20% dei voti e ridurre il consenso plebiscitario al padrino del Cremlino.

Il primo marzo si “rinnoverà” l’Assemblea degli esperti, il parlamento iraniano, sempre per aggiungere un coro laudativo alla rielezione putiniana del 17 marzo, per cui si prevedono grandi feste popolari e proclami di Vittoria universale. Tra aprile e maggio sarà la volta di Narendra Modi a raccogliere in India la gran parte dei voti di quasi un miliardo di elettori, nella “più grande democrazia del mondo” sempre più simile ai regimi dei suoi grandi vicini eurasiatici. A giugno arriva il turno di quattrocento milioni di europei per il rinnovo del parlamento di Bruxelles, e sarà uno dei momenti in cui cominciare a tirare le somme della grande guerra, per arrivare alla battaglia finale degli anglosaksy tra novembre e dicembre, con lo scontro dei “patriarchi” americani Biden e Trump, e le probabili elezioni anticipate in Inghilterra.

Dall’esito delle grandi elezioni dipenderà in buona parte anche l’evoluzione degli scenari bellici, in Ucraina e in Israele soprattutto, a seconda del prevalere di schieramenti più o meno pacifisti e dell’orientamento sulle parti da sostenere o condannare. Il Cremlino non si limita quindi a guardare da lontano, ma considera questi appelli formali della democrazia come vere e proprie chiamate alla mobilitazione, in una guerra sempre più ibrida e multiforme a livello universale. Un esempio viene dall’Indonesia, dove si è fatto uso dell’intelligenza artificiale per ripulire l’immagine dei candidati, e mobilitare politici defunti a inviare messaggi agli elettori. Nei giorni scorsi l’agenzia francese di controllo Viginum, specializzata nella difesa dalle ingerenze digitali straniere, ha evidenziato una rete di quasi duecento siti web russi impegnati nella propaganda delle tesi del Cremlino in Occidente, chiamata Portal Kombat, strutturata e coordinata per rivolgersi al pubblico di internet in Europa e negli Usa, e in tutti i Paesi che sostengono l’Ucraina. Putin non vuole soltanto conquistare l’Ucraina, o la Moldavia che tra poco potrebbe essere a sua volta invasa, ma intende dominare (“salvare”) il mondo intero.

L’intelligence ucraina ha poi raccolto informazioni sull’inizio di una fase attiva di guerra informatica della Russia che sarebbe già iniziata, chiamata Perun con il nome della più grande divinità pagana dell’antica Rus’, il cui idolo fu gettato nel Dnepr dal principe Vladimir come gesto simbolico del Battesimo del 988. In questo modo la Russia ribadisce la sua “santa battaglia” per la vera fede, rifiutando i falsi valori dell’Occidente idolatrico. Questa campagna prevede il coinvolgimento di giornalisti stranieri, personaggi mediatici e blogger per sostenere, a tutte le latitudini e in tutte le applicazioni, le ragioni dell’aggressione all’Ucraina e della missione salvifica della Russia nel mondo. L’inizio clamoroso del Perun è stata l’intervista concessa da Vladimir Putin all’americano Tucker Carlson, in cui non a caso il presidente russo è andato a rimembrare le gesta dei condottieri della Rus’ fin dal secolo precedente al Battesimo di Kiev, a cominciare da Oleg “il veggente” che attribuì a Kiev il titolo di “madre delle città russe”, e siccome era un veggente, sapeva che tale onore era destinato a giungere fino a Mosca.

Lo stesso Putin ha poi confidato di essere “rimasto deluso” dall’eccessiva condiscendenza di Carlson, che non gli ha posto domande quasi su nulla, o tanto meno obiezioni. Bisogna fare in modo che si creda all’esistenza di un “vero dibattito” mondiale, per non cadere nel ridicolo come nel caso dell’intervista, in cui la servile sottomissione dell’americano ha evidenziato la goffaggine del leader, che si è fatto prendere dalla smania di identificare i personaggi della storia antica con i suoi nemici attuali, i “neonazisti” ucraini che hanno iniziato nel 2014 la “guerra civile”, tanto da rammaricarsi di non aver iniziato prima l’invasione per ristabilire l’unità originaria. Il paradosso è che Putin è arrivato a solidarizzare perfino con Hitler, attribuendo ai polacchi la colpa dell’inizio della seconda guerra mondiale a cui il capo del nazismo sarebbe “stato costretto”, come del resto Stalin “doveva correggere” il grave errore di Lenin, presentato come “l’inventore dell’Ucraina”.

La smania di inserirsi nelle lotte per il potere in tutto il mondo, del resto, non è certo soltanto una propensione personale di Putin, ma in qualche modo un carattere tipico della natura russa, sempre bisognosa di trovare altrove la conferma della sua stessa esistenza, per non disperdersi tra i boschi e le steppe del suo territorio smisurato. Pietro il grande intendeva fare della Russia la “vera Europa”, proclamandosi re di Svezia e Polonia, e spiando da giovane le sedute della Camera dei Lord di Londra, su invito di Guglielmo III d’Orange. A metà dell’Ottocento lo zar Nicola I, chiamato “il gendarme d’Europa”, fece di tutto per difendere il principio dell’autocrazia perfino tra i suoi nemici, come la Turchia ottomana, o il “grande eretico latino”, il papa di Roma Gregorio XVI, che lo zar andò a visitare privatamente al Quirinale nel 1846, chiedendogli di non cedere alle suggestioni liberali. Uno dei russi più appassionati alle elezioni straniere fu poi il grande scrittore Lev Tolstoj, rappresentante dell’anima liberale e pacifista della Russia, ma non per questo meno coinvolto nei grandi giochi della Guerra e della Pace.

A fine Ottocento, il sommo romanziere russo esprimeva continuamente il suo desiderio che l’America scegliesse “il giusto presidente”, e i repubblicani statunitensi erano molto preoccupati del grande influsso che il conte Tolstoj poteva avere sull’elettorato americano, pubblicando articoli contro le sue esortazioni, considerate “degradazioni morali”. Il futuro presidente Theodor Roosevelt, che nel 1886 era il capo della polizia di New York, girava sempre con una copia di Anna Karenina da rileggere durante appostamenti e operazioni, scrivendo in una lettera alla moglie che Tolstoj “non commenta mai le azioni dei suoi personaggi, se siano buone o cattive… è un modo di raccontare senza morale, se non direttamente immorale”. Tutta l’America leggeva avidamente i romanzi di Tolstoj, ogni suo libro diventava un best-seller e provocava roventi discussioni. Si parlava allora della “questione femminile”, e russi e americani erano scandalizzati dall’eccesso di aperture nei Paesi europei, mentre Tolstoj si poneva all’avanguardia delle rivendicazioni dei nuovi diritti, tanto da venire ufficialmente scomunicato in patria, e negli Usa venne proibita la pubblicazione della Sonata a Kreuzer secondo una legge del 1873 che condannava i libri “indecenti, perversi o lussuriosi”. Anche Resurrezione, il romanzo più anticlericale di Tolstoj, fu ammesso con forti tagli della censura americana, “secondo i principi della morale borghese”, come si avvisava nella prefazione, suscitando forti proteste da parte dell’autore.

I lettori americani sommersero di lettere lo scrittore, anticipando le valanghe di commenti dei social attuali, e alla tenuta di Jasnaja Poljana giungevano gruppi di visitatori e pellegrini dall’America. Tolstoj era il personaggio più “americanofilo” della storia russa, e si è certamente rivoltato nella tomba sentendo il suo bis-bis-nipote, l’attuale deputato russo Petr Tolstoj, definire il periodo di studi della figlia in America un suo “terribile peccato” e una specie di “colpa globale”, in un rovesciamento totale del fronte della “guerra eterna dei valori”. Nel 1903 a visitare il conte si era recato anche William Jennings Bryan, il candidato democratico sconfitto nel 1896 dal repubblicano William McKinley. Bryan era un famoso oratore populista, detto il “Grande Uomo Comune” a cui oggi viene paragonato lo stesso Donald Trump, e nel 1900 tentò di nuovo di vincere le elezioni opponendosi alle banconote di carta “in mano alle banche” per difendere lo “standard dell’oro”, ma perse di nuovo nonostante i grandi raduni in cui si metteva nella posa del crocifisso “per la difesa del popolo”.

Più di centoventi anni dopo, la Russia, l’America e l’Europa sono di nuovo a confronto, alla ricerca dell’oro e dei valori perduti. Lo sdegno per l’assassinio di Naval’nyj obbliga tutti i leader, i partiti e le fazioni dell’opinione pubblica di tutti i Paesi a schierarsi, facendo della Russia l’unica patria globale, in cui decidere quale futuro vogliamo costruire.

 

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