11/09/2018, 12.28
RUSSIA
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La secolare controversia sul primato nell’Ortodossia

di Stefano Caprio*

Il Patriarcato di Mosca rifiuta ogni discussione sul “potere decisionale” nella Chiesa e insiste sull’intoccabilità del criterio del “territorio canonico” per cui ognuno è padrone a casa propria,

Mosca (AsiaNews) - Le risentite reazioni di Mosca alla nomina di due “esarchi” patriarcali inviati da Costantinopoli in Ucraina non sono soltanto l’ennesimo capitolo di una saga dal sapore medievale, che da mesi si sta sviluppando sul triangolo Costantinopoli-Mosca-Kiev. Sono un’espressione molto diretta ed esplicita di una delle più grandi controversie di tutta la storia della Chiesa: quella sul primato, o per dirla in termini più laici, sul “potere decisionale” nella Chiesa.

Nello scorso decennio, più volte si è tentato di riprendere una riflessione generale su questo tema nei vari incontri ecumenici internazionali. Il 13 ottobre 2007, la Commissione per il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi redasse un testo su “Comunione, conciliarità e autorità”, in cui si proponeva una triplice scansione dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa, a livello locale, regionale, universale. Si voleva in questo modo evitare di concentrare la discussione soltanto sul tema del papato romano, fonte di scismi e dissidi in tutto il secondo millennio cristiano.

Il testo di Ravenna rimase in sospeso per il rifiuto della delegazione russa di sottoscriverlo, per timore di “estendere anche alla Chiesa d’Oriente il principio occidentale del papismo”, come ebbe ad esprimersi il capo-delegazione di Mosca, il metropolita Ilarion (Alfeev). La polemica di questi giorni circa l’autocefalia ucraina conferma che l’avversione dei russi non si fondava soltanto su questioni di principio, ma riguardava obiettivi molto concreti.

La discussione sul primato non si è più potuta riprendere, neanche a livello di semplice revisione e studio delle testimonianze e dei testi del primo millennio della Chiesa unita, come era stato proposto dai membri greci della Commissione mista. Gli ortodossi russi hanno insistito sull’intoccabilità del criterio del “territorio canonico” per cui ognuno è padrone a casa propria, e sulla necessità di spostare i contatti ecumenici al versante caritativo e culturale, evitando le questioni dogmatiche ed ecclesiologiche.

L’Ucraina è da sempre considerata dai russi parte del proprio “territorio canonico”, nonostante la separazione politica del post-comunismo, che ha dato vita a una nazione indipendente che prima non era mai esistita. I territori dell’odierna repubblica ucraina sono del resto sempre stati molto incerti e molto contesi, fin dai tempi dell’invasione mongola (XIII secolo) e della contrapposizione tra il regno di Lituania-Polonia e la Russia moscovita, che durò quasi cinque secoli tra il ‘400 e il ‘700. Furono le politiche imperiali di Pietro il Grande e Caterina II a sottomettere definitivamente i territori attorno alle due rive del Dnepr, smembrando a più riprese lo stato polacco.

Il sogno di un’Ucraina indipendente rinacque a metà Ottocento, ispirata dalla lirica del grande poeta ucraino Taras Shevchenko, che per questo dovette vivere metà della sua vita nel confino siberiano, tornando solo due volte nella patria nativa. La natura stessa degli abitanti di quei territori, chiamati con tanti nomi a seconda dei padroni (Volynja, Galizia, Piccola Russia i più classici), ha sempre manifestato un’insopprimibile sete di libertà e indipendenza, come negli accampamenti dei Cosacchi, i veri padri dell’Ucraina moderna. Il famoso atamano Bogdan Chmel’nickij, che a metà del Seicento formò il primo movimento per l’autonomia ucraina, finì per consegnare le sue terre allo zar, pur di affrancarsi dal giogo del re polacco.

Anche a livello ecclesiastico le tensioni si rincorrono fin dall’antico regno della Rus’ di Kiev, fondata nel 988 dal principe Vladimir con il Battesimo di obbedienza bizantina. Suo figlio Jaroslav il saggio, trent’anni dopo, fu il primo a nominarsi un metropolita locale, senza attendere l’invio del titolare da Costantinopoli; più volte il Patriarcato ecumenico, anche dopo essere finito sotto il giogo ottomano, dovette ristabilire la propria primazia su Kiev e sulla stessa Mosca. L’ultimo greco fu il metropolita Isidoro di Kiev, che nel 1439 firmò al Concilio di Firenze la bolla di Unione col papa di Roma; tornato a Mosca, fu immediatamente incarcerato e poi espulso dallo zar. Da allora Mosca non volle più sentir parlare di dipendenza dai greci.

L’Unione di Brest del 1596, che riportava gli ortodossi ucraini alla comunione romana, fu poi una risposta alla proclamazione del Patriarcato di Kosca del 1589, estorto a Costantinopoli con metodi decisamente poco “ortodossi”, ma a fine Seicento la giurisdizione di Kiev fu riportata sotto il controllo del patriarca moscovita, e a questa decisione si appella oggi Kirill contro Bartolomeo.

La “guerra dei patriarchi” sembra infine dare ragione alla dottrina romana del primato assoluto dell’unico pontefice, unico modo per evitare certe lacerazioni. Eppure proprio l’attuale papa Francesco sta cercando in vari modi di rivalutare l’autonomia delle Chiese locali, considerando l’assolutismo romano un retaggio di un passato a cui almeno parzialmente rinunciare. Forse la grande lotta per l’Ucraina porterà a nuovo drammatico scisma della Chiesa in Oriente, come paventano i russi, ma potrebbe anche diventare la base per un rinnovamento nella comunione di tutta la Chiesa universale.

*Docente di Storia della filosofia russa al Pontificio Istituto Orientale

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