02/09/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La svolta della Russia a Oriente di se stessa

di Stefano Caprio

Il Cremlino afferma di avere rotto i legami con l’Occidente per passare alla “svolta verso Oriente”, ma i fatti smentiscono questa tesi: la Russia di Putin è tornata piuttosto all’immagine di quella imperiale del XIX secolo e della Guerra di Crimea, quando era in continuo conflitto con i Paesi del Vecchio Mondo. Trascurando le sue immense distese eurasiatiche che non ha mai amato e oggi lascia colonizzare da Pechino.

Le dimensioni topografiche della Russia sono tali da confondere spesso i poli alternativi, come ricorda un vecchio aneddoto sovietico sui due studenti mandati in esercitazioni estive che sbagliano le destinazioni, che erano il sud del mar Bianco e il nord del mar Nero. Oggi la Russia è impegnata nell’occupazione dell’Ucraina orientale, in una guerra totale contro il mondo occidentale, e sta del tutto perdendo di vista l’Oriente siberiano e quello Estremo, concentrando tutte le risorse nel fronte dell’odiata Europa e dell’Occidente collettivo.

In questo si riflette la logica tipica degli imperi, per cui l’espansione territoriale è più importante della cura delle terre occupate, come avveniva ai tempi della “Ecumene” ellenistica di Alessandro Magno, modello degli imperatori romani successivi, che morì praticamente in Afghanistan senza riuscire a dare una forma definitiva alle sue conquiste. Roma ha poi cercato di applicare modelli più efficaci e duraturi, per poi dissolversi di fronte alle invasioni barbariche; la “terza Roma” ha deciso di passare direttamente alla fase distruttiva, senza prendere esempio neppure dalla sua materna Bisanzio, la “seconda Roma”, che proprio per evitare l’invasione degli antichi Rhos decise di convertirli al cristianesimo europeo.

Da decenni la regione della Jacuzia, una delle più ricche di risorse naturali, non riesce a costruire il ponte sul fiume Lena, che attraversa la Siberia orientale per più di 4.400 chilometri, e sarebbe davvero un possibile legame tra le terre di tutte le latitudini. I fondi già stanziati da Mosca sono stati dirottati negli ultimi anni per un altro ponte molto simbolico, quello di Kerč che unisce la Russia alla Crimea, ora sottoposto a continui bombardamenti ucraini, e non si sa per quanto potrà restare in piedi. Il Cremlino afferma di avere ormai rotto i legami con l’Occidente, per passare alla “svolta verso Oriente”, ma i fatti smentiscono questa tesi: la Russia di Putin è tornata piuttosto all’immagine di quella imperiale del XIX secolo e della Guerra di Crimea, quando era in continuo conflitto con i Paesi del Vecchio Mondo. Allora i poeti e gli scrittori come Tjutčev e Dostoevskij sognavano di “innalzare di nuovo la croce sulla cattedrale di Santa Sofia di Costantinopoli”, e magari di unire tutti i popoli slavi (era la versione del “panslavismo” appunto) per sottomettere l’Europa intera alla “vera fede”.

La Russia ottocentesca era talmente confusa nelle sterminate distese eurasiatiche da aver conquistato perfino l’Alaska e parte della California, vale a dire la parte estrema dell’Occidente, di cui si è poi frettolosamente disfatta per incassare i soldi americani. Nel 1860 aveva fondato la nuova città di Vladivostok (nome che significa “dominio sull’Oriente”), chiamando il golfo davanti al porto il “Bosforo” come quello costantinopolitano; ma la città non ha mai evocato grandi passioni tra i russi, che perfino a due passi dai cinesi, e in mezzo ai cinesi come in quelle zone, si sentono sempre degli “occidentali”. La mentalità russa rimane comunque eurocentrica anche nelle versioni più conflittuali, e l’Estremo Oriente di cui occupa il territorio più vasto rimane sempre ai “margini del mondo”. Per conquistare quelle terre i russi hanno sempre preferito mandare avanti gli ucraini, dal mitico atamano cosacco Ermak ai tempi di Ivan il terribile fino ai colonizzatori del Primorje, la costa del Pacifico dove si sente parlare più con accento ucraino che russo o cinese, tanto che i coloni vi avevano fondato la repubblica autonoma del Zelenyj Klin, una “Verde Ucraina” d’Oriente. Il Far East non ha mai affascinato i russi come invece è successo agli americani con il Far West, anche se di oro ce n’è sempre stato di più in Siberia che in California, pur se più difficile da estrarre dai ghiacci.

Il grande scrittore Anton Cechov nel 1890 aveva visitato l’isola di Sakhalin, rimanendo impressionato non dalle sue straordinarie bellezze naturali o dalla ricchezza delle risorse, ma dall’essere diventata un Ade carcerario, per come la utilizzava il potere imperiale. E in generale la Siberia è per antonomasia la terra del confino e dell’esilio, dai tempi degli zar ai lager staliniani, descritta dalle Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij, che vi passò il decennio di confino più terribile della sua vita, fino all’Arcipelago Gulag di Solženitsyn. Proprio il grande dissidente dell’epoca sovietica scriveva nel suo testo-manifesto del 1974, Da sotto i massi, che “la storia ci ha consegnato incontaminato il sogno della grande casa dell’Oriente russo settentrionale, e invece di cercare di mettere ordine tra gli oceani e disturbare i vicini con la mano del dominatore, potremmo imparare a vivere liberamente nel nostro spazio infinito, concentriamo i nostri sforzi per renderlo abitabile e accogliente per tutti”. Putin si è sempre proclamato ammiratore di Solženitsyn, e forse la sua “svolta ad Oriente” insegue proprio il sogno (molto sovietico, comunque) di civilizzare definitivamente la Siberia.

Lo stesso scrittore, espulso ed esiliato in America, tornò in Russia nel 1994, pronunciando un memorabile discorso davanti alla Duma di Mosca sul tema “Come ricostruire la Russia”. Rifiutando la variante dell’impero sovietico, Solženitsyn mise in guardia dalla “sottomissione dominatrice dell’Ucraina, della Bielorussia e del Kazakistan settentrionale”, ricordando il toponimo della Novorossija, usato per definire le terre occidentali contese che dovevano essere “riaccolte” nella statualità russa, ma senza tragedie. Purtroppo, anche queste parole del grande dissidente sono state forzate per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Oggi il Cremlino invita le tante regioni della Federazione a “prendersi carico” di quelle occupate e annesse dell’Ucraina, per la “ricostruzione delle infrastrutture” distrutte dalle stesse armate russe. Il governatore della Kamčatka, Vladimir Solodov, ha messo tutte le forze della penisola di confine tra Oriente e Occidente per i lavori da fare nel Donbass, mettendo da parte tutti quelli della sua stessa penisola, dove ancora non esiste una ferrovia in grado di permettere ai cittadini locali di muoversi da una parte all’altra, e che secondo le sue stesse parole “non verrà mai costruita, è un sogno inutile”.

Solodov è un tipico rappresentante dei “giovani tecnocrati” sparsi dall’amministrazione presidenziale in tutto il territorio, soprattutto quello orientale. Nato a Mosca, dopo la “scuola del Cremlino” è stato spedito a Irkutsk e poi in Kamčatka, e grazie a personaggi come lui le regioni orientali rimarranno comunque sempre indietro rispetto alla Russia europea. Egli parla spesso di “innovazioni tecnologiche” da impiantare nelle terre dell’Estremo Oriente, senza ricordare che proprio questo era il progetto condiviso con molte istituzioni europee e americane, oggi tutte scomparse per la guerra e le sanzioni, applicate anche alla sua stessa persona per “deportazione di bambini ucraini”. In compenso, dalle sue parti sono sempre più attive le “tigri orientali” a partire dalla Cina, che non ha bisogno di invasioni per ingoiare tutto l’Oriente russo.

Le terre siberiane sono ormai una colonia economica di Pechino, soprattutto per lo sfruttamento delle risorse naturali, ricevendo da Mosca ogni sorta di permesso d’invasione pacifica in cambio della “amicizia geopolitica”. Per esempio, in Kamčatka si pesca circa un terzo di tutto il pesce della Russia, ma la maggioranza viene servito sulle tavole dei cinesi. Nella regione di Irkutsk esiste il più grande giacimento naturale di gas a Kovyktinsk, che viene quasi completamente indirizzato al Celeste impero, mentre gli abitanti del luogo alimentano le stufe con il mazut, o semplicemente con la legna. E lo stesso legname è ormai in gran parte proprietà cinese, con affitti pluridecennali alle loro società di migliaia e migliaia di ettari dei boschi siberiani ed estremo-orientali; tutta la legna tagliata viene mandata verso Pechino, mentre nell’Oriente russo, con le sue enormi risorse boschive, non esiste neppure una fabbrica di cellulosa. Produrre carta, in effetti, è piuttosto costoso, mentre il legname non lavorato è utilissimo alla Cina come materia prima a buon mercato.

Nelle terre russe orientali si cerca anche di aprire qualche fabbrica, ma solo quelle più pericolose, come si addice ai territori coloniali. Nel 2021, nella provincia di Ajano-Majsk della regione di Khabarovsk, una compagnia cinese ha progettato l’apertura del più grande combinato chimico del mondo; questa volta l’idea è stata scartata dopo un referendum tra la popolazione locale, contraria al 97%, ma presto la questione si riproporrà in altre forme. Le infrastrutture dell’Oriente sono una scocciatura di cui il Cremlino ormai non si interessa più da tempo, e la mitica Transiberiana di fine Ottocento, avanguardia dei trasporti a livello mondiale, lascia oggi il posto ai deserti del triangolo tra la Kamčatka, Jakutsk e Magadan, almeno finché non si farà una rotta verso Pechino. I cinesi hanno in mente il fantastico progetto di un ponte, o un tunnel, tra la Čukotka e l’Alaska, unendo definitivamente l’Oriente con l’Occidente, e ricordando a tutti che (anche se non tutti ci credono) viviamo in un pianeta sferico, non su una terra piatta e vuota di mondi contrari.

 

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