L'ascesa (e la fragilità) dell'alternativa cinese al dollaro
Negli ultimi cinque anni i prestiti e i depositi cinesi all'estero in renminbi sono quadruplicati, mentre il CIPS (l'alternativa di Pechino al circuito SWIFT) va crescendo in Asia centrale, Medio Oriente e altre aree strategiche. Ma il disegno rimane comunque nazionale perché per poter davvero contare su una valuta globale la Cina dovrebbe rinunciare al controllo sui flussi di capitale, scelta per Xi Jinping incompatibile con la stabilità interna.
Milano (AsiaNews) - Nel contesto della guerra commerciale con gli Stati Uniti, il presidente cinese Xi Jinping sta mettendo in atto una strategia di lungo periodo che va oltre lo scontro sui dazi imposto da Donald Trump e le successive ritorsioni. Mentre l'economia cinese rallenta sotto il peso del crollo immobiliare e della deflazione, la leadership ha scelto di investire massicciamente nella creazione di un'alternativa monetaria al sistema finanziario mondiale dominato dal dollaro. Pechino si è resa pienamente conto che gli Usa possono usare le loro leve di controllo sul sistema finanziario globale come arma, in particolare applicando sanzioni ed esclusioni dai circuiti di pagamento. La risposta cinese consiste nella costruzione paziente di una rete parallela che permetta transazioni internazionali senza passare dai canali occidentali. Negli ultimi cinque anni i prestiti e i depositi cinesi in valuta nazionale all'estero sono quadruplicati. Il renminbi - nome ufficiale della valuta cinese di cui lo yuan rappresenta l'unità di conto - ha visto raddoppiare la propria quota nei pagamenti internazionali dal 2022 a oggi.
Il sistema CIPS, creato dalla Cina come alternativa allo SWIFT, il circuito internazionale che gestisce i pagamenti tra banche, si è progressivamente esteso grazie a un fitto tessuto di istituti finanziari che collega l’Asia centrale, il Medio Oriente e altre aree strategiche. Questa infrastruttura permette di regolare pagamenti in renminbi localmente, senza dover convertire in dollari. Un esempio concreto dell'utilizzo di tali canali alternativi è emerso nell'agosto 2025, quando un'azienda dello Xinjiang, regione sotto sanzioni occidentali per l'uso del lavoro forzato, ha pagato i suoi azionisti stranieri utilizzando mBridge, un sistema di valute digitali sviluppato dalla Cina insieme ad altre banche centrali.
Un altro pilastro di questa strategia è l’ampliamento dei rapporti finanziari con altri Paesi. Pechino ha concesso linee di credito per oltre 600 miliardi di dollari a numerose banche centrali, creando un’architettura di sostegno paragonabile per scala a quella del Fondo Monetario Internazionale. Tali accordi consentono ai Paesi partner di accedere al renminbi in tempi di crisi, incoraggiandoli così a prendere in prestito e commerciare nella valuta cinese. Oggi oltre la metà dei pagamenti transfrontalieri della Cina avviene nella propria valuta, contro meno dell’1% nel 2010.
Il debito come strumento di influenza
Il contesto macroeconomico globale ha facilitato questa strategia. Con i tassi d'interesse statunitensi intorno al 4%, prendere in prestito dollari è diventato costoso per molti Paesi in via di sviluppo. La Cina offre prestiti in renminbi a tassi ben inferiori al 2%. Paesi fortemente indebitati come Kenya, Sri Lanka e Angola hanno iniziato a convertire i debiti contratti in dollari in obbligazioni denominate in renminbi. L'Indonesia e la Slovenia hanno annunciato l'emissione di bond in valuta cinese. La trasformazione più significativa è avvenuta dopo l'imposizione delle sanzioni alla Russia nel 2022. Le banche cinesi hanno convertito quasi tutti i nuovi prestiti esteri dal dollaro al renminbi, triplicando la quantità di debito denominato in valuta cinese. Creando una massa crescente di debiti denominati in renminbi nel mondo, la Cina genera domanda per la propria valuta, poiché i Paesi debitori hanno bisogno di commerciare con Pechino per ottenere renminbi con cui rimborsare i prestiti.
Questa strategia non è priva di costi per i debitori. Quando si prende in prestito in valuta estera, il rischio derivante dalle fluttuazioni del cambio ricade sul Paese che riceve il finanziamento. Circa l'80% dei prestiti cinesi va a Paesi in via di sviluppo, molti dei quali sono finanziariamente fragili. La scelta di questi governi di indebitarsi in renminbi piuttosto che in dollari riflette un calcolo tattico che privilegia la riduzione dei costi immediati rispetto alla gestione dei rischi di lungo periodo.
L'espansione del sistema finanziario cinese nel Sud globale avviene anche attraverso la Belt & Road Initiative, la cosiddetta “nuova via della seta”. Gli investimenti delle aziende cinesi nei Paesi membri hanno raggiunto nella prima metà del 2025 livelli record. La strategia diplomatica di Pechino punta sul Sud-Est asiatico, area chiave per rafforzare l’integrazione economica e aggirare le barriere commerciali imposte da Washington.
Ambizioni nazionali, non rivoluzione globale
Nonostante la retorica sulla costruzione di un ordine multipolare, la strategia cinese rimane fondamentalmente nazionale. Al vertice dei BRICS tenutosi a Rio de Janeiro nel luglio 2025, nessun progresso concreto è stato fatto verso la creazione di una valuta comune o una strategia coordinata di de-dollarizzazione. Pechino è convinta che il renminbi sia avviato a diventare gradualmente una valuta internazionale e non vede alcun motivo per partecipare alla creazione di una nuova valuta condivisa con Russia, India, Brasile e Sudafrica.
Questa scelta riflette tra le altre cose vincoli strutturali che Pechino non intende rimuovere. Perché il renminbi diventi una valuta davvero globale, la Cina dovrebbe liberalizzare i mercati finanziari e rinunciare al controllo sui flussi di capitale, una scelta che il regime ritiene incompatibile con la stabilità interna. Tali controlli servono infatti a contenere l’esportazione illecita di ricchezze e a disciplinare i membri della classe dirigente che tentano di trasferire illecitamente capitali all'estero: prima del loro irrigidimento nel 2016, le fughe di capitali ammontavano a centinaia di miliardi di dollari l’anno, e rinunciarvi significherebbe perdere una leva politica decisiva.
Il paradosso della strategia cinese sta proprio in questa contraddizione. Pechino vuole costruire un'alternativa credibile al dollaro senza adottare le riforme che storicamente hanno accompagnato l'emergere delle grandi valute internazionali. I numeri mostrano i limiti di questo approccio. La valuta cinese rappresenta oggi solo il 4% dei pagamenti internazionali, contro il 50% del dollaro. Le riserve valutarie delle banche centrali mondiali denominate in renminbi si fermano al 2%, mentre quelle in dollari raggiungono il 58%. Anche considerando che parte delle transazioni in renminbi avviene attraverso canali non tracciati dai sistemi di monitoraggio occidentali, il divario rimane enorme.
A Pechino prevale la convinzione che il caos politico americano e l’uso aggressivo delle sanzioni finanziarie eroderanno gradualmente la fiducia nel dollaro, consentendo a Pechino di ridurre la dipendenza dalla valuta americana senza liberalizzare del tutto i propri mercati. Nel frattempo, Xi Jinping accetta il costo economico a breve termine come prezzo per consolidare la solidità strategica del Paese, mentre l’economia cinese deve far fronte a molteplici fattori di crisi interna che nel loro insieme hanno minato la fiducia dei consumatori e messo in difficoltà i governi locali.
Questa pazienza strategica riflette un calcolo di lungo periodo. Nella visione dei vertici di Pechino, il sistema cinese possiede una stabilità che manca alle democrazie occidentali, più esposte alle tensioni interne, e il tempo, ne sono convinti, finirà per favorire la Cina. Tuttavia, nei fatti, l’ascesa del renminbi risulta contenuta e si traduce soprattutto nel suo consolidamento come valuta di riserva regionale in Asia e nel Sud globale, contribuendo alla formazione di uno spazio economico solo in parte autonomo dall’architettura finanziaria occidentale. In questo contesto, l’azione dei BRICS appare più limitata di quanto suggerisca la retorica e si concentra più che altro sulla regolazione di parte degli scambi in valute locali, riducendo i costi ma senza costruire una vera alternativa al dollaro, mentre l’ordine monetario globale tende lentamente a frammentarsi in blocchi distinti.
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