23/05/2025, 12.34
CAMBOGIA-ITALIA
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Laurence e i Khmer rossi: 'È tutto finito, il domani canterà!'

di p. Alberto Caccaro *

A cinquant'anni dalla caduta di Phnom Penh nelle mani di Pol Pot esce in edizione italiana il libro "Oltre il cielo" in cui una donna francese ha raccontato il genocidio con gli occhi di chi in Cambogia era arrivata per amore. Il diario di un inferno di miseria, menzogna e morte vissuto insieme alle sue bambine. Un racconto estremamente interessante e credibile per un Paese a cui il tribunale voluto dall'Onu ha reso ben poca giustizia e verità con le sue sentenze.

Milano (AsiaNews) - Laurence Picq aveva 28 anni quando, nell’ottobre del 1975 proveniente da Pechino, con le sue due figlie piccole Narén e Sokha, arrivò a Phnom Penh, capitale della Cambogia Democratica. Il Paese – ribattezzato appunto Kampuchea Democratica – dal 17 aprile dello stesso anno cadde in mano a Pol Pot e ai Khmer Rossi. Oggi, a cinquant’anni esatti da quegli eventi, pur non essendoci nulla da celebrare – il regime fu responsabile della morte di circa due milioni di persone – ricordare è però doveroso. L’uscita in traduzione italiana di un libro che ricorda e racconta quei tragici eventi ci offre l’occasione per ricordare e ancora interrogarsi sulle ragioni che hanno portato a tanta distruzione e autodistruzione. Il libro Au-delà du ciel. Cinq ans chez les Khmers rouges, fu pubblicato nel 1984 a Parigi da Éditions Bernard Barrault e ora è disponibile anche in lingua italiana con il titolo Oltre il cielo grazie alla curatela di Marco Respinti e alle edizioni Tralerighe libri. Una magnifica introduzione dello stesso Respinti e un invito alla lettura di Antonia Arslan convincono subito il lettore a proseguire fino all’ultima pagina, desideroso di camminare con l’autrice e le sue due bambine, pur di sopravvivere alla violenza gratuita, ai soprusi d’ogni tipo e all’ignoranza di un’ideologia alla quale anche Laurence aveva inizialmente creduto.

Negli anni ‘60 del secolo scorso, Laurence conobbe Suong Sikoeun, giovane di origine cambogiana approdato a Parigi per ragioni di studio. In quello stesso periodo furono molti i giovani cambogiani inviati in Francia sempre per studio. Non solo entrarono in contatto con i circoli marxisti attivi nella capitale francese, ma una volta tornati nel loro Paese rivestirono ruoli importanti tra i quadri di governo. È in tale contesto, e per una sorta di comune passione rivoluzionaria, che i due si conobbero, decisero di sposarsi, di formare una famiglia e di tornare in Cambogia appena le condizioni lo avrebbero consentito. Marco Respinti, nel tentativo di esplicitare la matrice rivoluzionaria che animò i Khmer Rossi, fa riferimento alla «Rivoluzione Francese (1789-1799) tanto presa a modello quanto però giudicata incompiuta e dunque finalmente da inverare nella forma più estrema ed estremista del marxismo-leninismo corretto à la chinoise» (pag. 13). Spingendosi però ben oltre il maoismo, «in una miscela suprema di morte in cui si assommano comunismo, nazionalismo e tanto, tanto razzismo […] una rivoluzione che non può fermarsi, che non si stanca, che ribalta anche se stessa mentre divora i propri figli» (pag. 13).

A distanza di anni, fatichiamo a comprendere la buona fede di Laurence che per amore e per passione decise di seguire il marito. Fu una delle poche donne straniere ad attraversare con occhi non cambogiani quell’inferno di miseria, menzogna e morte. Questo rende il suo racconto estremamente interessante e credibile oltre ogni retorica e convenienza. Nel mezzo della fuga verso la Tailandia, mentre il regime ha ormai i giorni contati, ad alcune anziane che, sorprese dalla presenza di una donna francese tra loro gli chiesero «Bambina cara! Cosa ci fai qui, nel tuo stato? Cosa sei venuta a fare in Cambogia, in questi tempi così duri?», così replica, «Avrei tanto voluto offrire il mio contributo» (203).

Quando, nel settembre del 2022, il tribunale voluto dall’Onu e dal governo cambogiano per giudicare i crimini commessi dai Khmer Rossi ha chiuso i suoi battenti, ha lasciato poco al Paese. Costato complessivamente più di 330 milioni di dollari, non si può dire che il tribunale abbia reso giustizia alle vittime dell’auto-genocidio cambogiano. A fronte di circa 2 milioni di morti, infatti, in sedici anni di lavoro, di sedute e di audizioni, il tribunale ha emesso solo tre condanne al carcere a vita: la prima, a carico di Kaing Guek Eav, meglio noto come Duch, capo del famigerato centro di torture S-21 dove hanno ucciso circa 17mila persone, morto però nel 2020; la seconda e la terza a carico rispettivamente di Nuon Chea, il “fratello numero due” (il fratello numero uno era Pol Pot), morto nel 2019 all’età di 93 anni, e di Khieu Samphan, ex capo di Stato della Kampuchea Democratica, oggi ultranovantenne.

Se da una parte queste tre sentenze sono state un traguardo importante, dopo così tanti anni di lavoro e di soldi spesi, la posta in gioco rimane ancora capire cosa davvero è successo in quegli anni e perché. Il Documentation Center of Cambodia (DC-C), che ha avuto il compito di raccogliere e archiviare tutto il materiale disponibile sui Khmer rossi, ha censito in questi anni di ricerca 19440 fosse comuni sparse sul territorio nazionale e 185 centri di detenzione e tortura. I verdetti di cui sopra non restituiscono le vittime ai sopravvissuti e non risanano le ferite che questi ultimi si portano dentro. Chhang Youk, direttore del DC-C, sostiene che i responsabili avrebbero dovuto essere condannati a 2 milioni di anni di prigione, tante furono le vittime del genocidio perpetrato. In ogni caso il dramma cambogiano non è solo cambogiano: «Quando osserviamo cosa accadde in Cambogia, non stiamo guardando un’esotica storia di orrori, ma scrutiamo nel buio, nei posti più sozzi della nostra stessa anima».[1]

Laurence attraverso queste pagine ci aiuta a scrutare in quel buio tra «bambini dispersi», «neonati schiacciati», «donne che partorivano per strada», «feriti portati via su letti a rotelle e poi abbandonati», «vecchi sfiniti» (86), «in ginocchio per una scodella di brodo» (125). Incinta del terzo figlio e in fuga verso la Tailandia, stremata dalla fatica e dalla fame – scrive Laurence – «fui tentata di lasciarmi andare alla disperazione, ma una presenza persistente mi diceva: «Qui c’è tuo figlio!» (173). Purtroppo il bambino, nato il 17 febbraio 1979, morirà di stenti lungo la via il 10 maggio successivo.

In un passaggio del libro, come per istinto, sentendo l’approssimarsi della fine e non vedendo più le sue bambine «Le mie figlie! Le mie figlie! Dove potevano essere in quel momento?», Laurence ammette: «sentii il desiderio di recitare una preghiera e di fare un voto» (192). Quando un giorno le figlie inaspettatamente gli domandarono: «Mamma, perché non sei venuta a cercarci quando Noeun (una donna preposta alla guardia dei bambini ndr.) ci imbavagliava e ci picchiava nella stanza segreta?», non riuscì a dire altro che: «È tutto finito, il domani canterà!» (156).

Laurence arriverà in Francia il 24 dicembre 1980. Con lei anche Narén e Sokha. Di tutto quanto accaduto «non ho dimenticato, non voglio dimenticare, ho paura di dimenticare» (253).

 

* p. Alberto Caccaro è un missionario del Pime in Cambogia


[1] P. Short, Pol Pot. Anatomia di uno sterminio, Rizzoli 2005, 31.

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