28/02/2023, 08.55
RUSSIA
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Morto Pavlovskij, ideologo del ‘putinismo democratico’

di Vladimir Rozanskij

È stato il grande suggeritore nei primi due mandati presidenziali dello “zar” russo. Suo il modello di “democrazia imperiale” del presidente russo. Finito ai margini del potere per essersi opposto alla permanenza in carica di Putin.

Mosca (AsiaNews) – È morto all’età di 72 anni, dopo lunghe sofferenze per un tumore, il politologo Gleb Pavlovskij, uno dei principali ideologi dei primi anni di Putin, come ha comunicato il suo amico Simon Kordonskij, professore della Scuola superiore di economia, a nome anche della famiglia. L’accademico è stato il grande suggeritore nei primi due mandati presidenziali agli inizi degli anni Duemila, che a suo parere avrebbero dovuto concludere la funzione preminente dello stesso Putin, lasciando spazio al ricambio dei poteri.

Pavlovskij aveva ispirato la creazione del partito del presidente, “Russia Unita”, a metà del 2000, durante il primo anno di presidenza putiniana, accompagnandolo da un vivace movimento giovanile vicino al Cremlino. Era un modello di “democrazia imperiale”, che riassumeva la necessità del governo forte e della “verticale del potere”, termini da lui elaborati per trovare una sintesi tra la tradizione assolutista e la grande diversità etnica, sociale e anche politica della Russia.

Il regime lo ha messo da parte nel 2011, quando si preparava il ritorno di Putin al vertice dello Stato con il terzo mandato, dopo l’intervallo di Medvedev. Pavlovskij sosteneva invece la necessità di un secondo mandato del “delfino”, a cui cercava di cucire le vesti del politico moderato, nei suoi frequenti e molto seguiti interventi sulla stampa nazionale.

Il politologo viene dal movimento del dissenso antisovietico, diventando noto nel 1974, quando si rifiuta di confermare in tribunale le accuse del Kgb al suo conoscente Vjaceslav Igrunov, arrestato per aver denigrato il regime sovietico. In un primo tempo Pavlovskij collabora con i servizi segreti, per poi dichiarare di essere stato costretto a fornire informazioni, e di non volersi più sottomettere.

A Mosca diviene redattore della rivista Ricerche (Poiski), attività che gli costa l’arresto nel 1982. Di nuovo le autorità gli estorcono informazioni su altri dissidenti, limitandosi però a quelli che avevano già lasciato il Paese. Inviato al confino nella regione di Komi, torna nella capitale all’inizio della perestrojka gorbacioviana, diventando uno dei primi collaboratori del futuro presidente Boris Eltsyn. Conosce il filantropo Usa George Soros, che ha finanziato il programma sulla “Società civile”, diffondendo la tecnologia informatica che negli anni ’90 stava cominciando a cambiare il mondo.

Insieme all’uomo d’affari Vladimir Jakovlev, fonda poi la cooperativa giornalistica Il Fatto, da cui esce una delle pubblicazioni più autorevoli dell’informazione russa, il giornale Kommersant, diventando uno dei principali punti di riferimento dei media di tutto il Paese. Decide dunque di dedicarsi alla nuova scienza della “polittekhnologija”, la politologia scientifica, per offrire a tutti gli strumenti per comprendere e partecipare alla vita pubblica.

La sua Fondazione per la politica effettiva sostiene nel 1996 la campagna elettorale di Eltsyn, aumentando notevolmente i consensi che sembravano assai incerti, dando un contributo decisivo alla vittoria sul comunista Gennadij Zjuganov. La sua iniziativa riesce a unire i principali oligarchi insieme ai siloviki, gli “uomini degli apparati di sicurezza”, creando le premesse per il sistema poi incarnato da Putin, che lo stesso Pavlovskij contribuisce a far scegliere come primo ministro, e poi successore del presidente.

Progressivamente escluso dalle stanze del potere, continua fino a quando ha le forze a monitorare e informare sugli sviluppi della politica russa e le sue possibili evoluzioni, vivendo tra Mosca e l’Austria. Era molto rispettato, ma guardato con sospetto da tutte le parti politiche e dall’opinione pubblica, per la sua vicinanza al potere, ma anche per la sua libertà di critica. Le ultime parole che di lui si ricordano, prima ancora della catastrofe della guerra, dicevano che “quando si tocca il fondo, è il momento di aspettarsi il peggio”.

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